In Marketing Sportivo

Nell’esatto momento in cui si scrive, ed è giusto premetterlo, le azzurre della pallavolo si stanno giocando la finale mondiale contro la Cina. Segno di un movimento, quello del volley, che non solo esiste ed è in salute, ma sta producendo risultati più che interessanti per i nostri colori. Tanto per tirare una riga e fare un paragone.

Quasi nello stesso momento, sul circuito nipponico di Motegi, si concludono le prove libere 2 del Gran Premio MotoGP del Giappone. È una sessione che -a causa del meteo cinico e baro- ha un ben misero valore cronometrico e che ha visto i più veloci del mazzo non prendere neppure la pista e attendere giorni migliori. Domenica mattina, sulla pista di proprietà della Honda, Marc Marquez avrà il primo Match Point per il mondiale 2018. Dovesse riuscire, il marziano di Cervera intascherebbe il mondiale numero 7 con 3 gare d’anticipo.

Della Formula 1 impegnata in terra statunitense inutile starne a parlare. Il massimo campionato a 4 ruote è abbondantemente terminato dopo il Gran Premio teutonico, quando il presunto edge competitivo della scuderia di Maranello è stato prima pareggiato e poi abbondantemente superato da Hamilton e i suoi. Anche per quest’anno, e lo dico da tifoso ferrarista, la questione è chiusa.

Nuove sfide e grandi icognite

È sempre più evidente che la costruzione della competitività sia la sfida -e al contempo la grande incognita- dello sport moderno. Specie nel multiforme panorama dell’intrattenimento odierno è necessario per i comitati organizzativi e per gli organi di governo sportivo garantire campionati, tornei e leghe in cui la lotta per le posizioni di testa sia imprevedibile e combattuta. Occorre, per uscire di metafora, che ci sia partita (o gara) vera se non si vuole vedere il proprio pubblico allontanarsi, spostandosi su altre discipline o campionati.

D’altronde, e ce lo insegna la teoria stessa dello sports marketing, una delle cosiddette “caratteristiche secondarie del prodotto sportivo” deve essere secondo Mullin, Hardy e Sutton la non prevedibilità. La non prevedibilità infatti distingue lo sport da molte altre forme di intrattenimento moderno altamente popolari, come il cinema, la musica e il teatro. In definitiva, e volendo banalizzare, una delle cose che rendono lo sport emozionante è proprio questa, ovvero il fatto che -a differenza di un film, una piece o un brano musicale, non si sappia mai come va a finire.

Usando nuovamente l’esempio della Formula 1, quanto detto sopra è stato estremamente evidente nel decennio appena trascorso, in cui pochissimi driver e pochissime scuderie hanno -di anno in anno- avuto la possibilità di puntare al bottino grosso, lasciando agli altri le briciole. Il divario tecnico, economico ed organizzativo creatosi fra le prime due o tre file della griglia e il resto del gruppo ha creato un campionato a due velocità che si tramuta spesso in logoranti trenini e sfiancanti processioni. Volendo scherzare, c’è un fondo di verità quando si dice che Mercedes e Williams non fanno neppure lo stesso sport.

Questa rincorsa alla competitività, o alla non prevedibilità, che ribadiamo sarà la chiave di volta del successo di questo o quello sport nel futuro, ha obbligato gli organi direzionali a prendere decisioni diverse e multiformi, con diverse risposte date alla medesima domanda.

Vari approcci per trovare delle soluzioni

La NBA, la lega professionistica del basket americano, tentò nel passato di arginare lo strapotere delle franchigie più prestigiose introducendo negli anni il salary cap (ovverosia un tetto di spese al di fuori delle quali non si poteva andare) e il concetto del reverse draft, per cui alle squadre più deboli andavano le prime scelte dei giocatori in procinto di entrare nel Campionato. Il metodo funzionò -ed in un certo senso funziona tutt’ora- ma non riuscì comunque ad impedire che di quando in quando si creassero dinastie difficilmente arginabili, come i Bulls dell’epoca Jordan o gli odierni Warriors di Curry, Durant e compagnia.

Altre organizzazioni sportive, come la MotoGP, hanno invece tentato di ricostruire la competitività con un sistema di regole tecniche che, stagione dopo stagione, puntava ad avere mezzi allineati come performance. Ducati, Suzuki, Yamaha e Honda possiedono ora prototipi altamente competitivi e capaci di portare i propri piloti sul podio con regolarità, garantendo gare spettacolari e battaglie memorabili. Certo, si potrà obiettare, vince sempre Marquez, ma almeno deve sudare la pagnotta.

Ancora, la World Superbike ha sperimentato un sistema di “reverse grid”, in cui si prevede che il vincitore della prima gara del weekend parta decimo, il secondo parta nono, il terzo ottavo e via discorrendo, mentre il British Touring Car Championship utilizza addirittura un sistema di estrazione casuale per determinare le posizioni di partenza. Si potrebbe continuare: gli esempi sono infiniti.

Nuove sfide anche per il marketing

In termini di marketing, per le organizzazioni sportive e gli organi decisori dello sport, quello della competitività è un nuovo asset strategico da conquistare. Se in passato la sfida principale era quella di aumentare l’awareness e la fruibilità delle discipline ed allargare così il pubblico potenziale, oggi è chiaro che occorre trovare metodi e forme per invogliare il pubblico all’ascolto fedele. Questo sulla base del fatto che un pubblico che può potenzialmente guardare tutto e sempre, sceglierà mano a mano di seguire unicamente le discipline più divertenti e spettacolari.

L’esempio del calcio, in tal senso, è lampante. I principali campionati nazionali del vecchio continente sono più o meno dominati da una o due formazioni che lasciano il vuoto dietro di sé e che sono sostanzialmente imbattibili per la quasi totalità degli avversari (tanto che spesso la discussione è sulla quantità di reti segnate, più che sull’effettivo risultato). È il caso della Juventus in Italia, ma anche del Bayern nella Bundesliga, del Paris Saint Germain in Francia, del Manchester City in Inghilterra o dell’onnipresente duo spagnolo Real-Barcellona.

Tutte squadre -queste- che monopolizzano ascolti e popolarità, creando in effetti veri e propri buchi di notiziabilità per tutto il resto dello sport e più di un problema al movimento. I numeri in tal senso valgono più di mille parole. Stando ai dati AGB Auditel, la prima di campionato 2017/2018 fra Juventus e Cagliari ha fatto registrare un’audience di 1.310.681 spettatori. Nella stessa giornata, Bologna-Torino si è fermata a 75.000. Insomma, non è errato dire che il calcio è lo sport più popolare del nostro Paese, ma è altresì vero che la stragrande quota di questa popolarità è appannaggio di una squadra sola.

In termini schietti di sponsorizzazioni, il rovescio della medaglia di questa assenza di competitività è manifesto: gli investimenti si concentreranno attorno ale property più appetibili, lasciando solo pochi spiccioli al resto del gruppo.

Creare, o ricreare la competitività è certamente la sfida di marketing principale del futuro di ogni organizzazione sportiva che si rispetti. Il rischio -neppure troppo remoto in realtà- è che alla fine rimangano vive e vegete solo quelle due-tre leghe capaci di garantire sempre uno spettacolo di altissimo livello e dal risultato incerto. Per gli altri, l’oblio sembra invece inevitabile.

 

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Emanuele Venturoli
Emanuele Venturoli
Laureato in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica all'Università di Bologna, è da sempre appassionato di marketing, design e sport.
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