c : i : n : c : o
la formula del successo

Se per caso vi è capitato di passare da quelle parti, saprete che una delle caratteristiche più evidenti dell’accento catalano, ed una delle più canzonate dal resto degli iberici, è il fonema /s/. Nel parlato questo suono, naturalmente una fricativa linguovelar sorda, diventa molto simile alla [ ∫ ] dell’inglese, quella del pronome “she” per intenderci. È qualcosa a livello musicale di lontano anni luce dalla /s/ secca, corta e sorda del castigliano, che schiocca in bocca e poi sibila tra i denti. Ed è qualcosa che fa sempre sorridere, con un filo di imbarazzo, durante una conversazione, quando si parla delle cose più terrene, come la mesa, la casa, la rosa: ognuna di queste parole, in bocca ad un catalano, sembra pronunciata da un ubriaco. Adesso, però, non sorride più nessuno.

A 23 anni Marc Marquez di Cervera, Catalogna, ha vinto il titolo mondiale numero 5 della sua carriera nel Motomondiale.

È il terzo in MotoGP, ed anche il terzo negli ultimi 4 anni. Lo ha vinto con tre gare di anticipo, stando alla matematica, ma con una generosa ipoteca versata già all’inizio dell’estate. Lo ha vinto, e neppure questo è un dettaglio irrilevante, in una gara che non pensava neppure di vincere. Lo ha vinto, infine, in sella ad una moto nata tutt’altro che perfetta e che ha dovuto contribuire a migliorare, trasformando la bestia in un animale quantomeno domabile. Ma tutto questo non è notizia, non è neppure cronaca. È semplicemente come stanno le cose.

Non è ipocrita cercare di comprendere questo mondiale alla luce di come sono finite le cose l’anno scorso. Al contrario, cercare di di rileggere questa stagione senza considerare l’OK Corral di Malesia e Valencia 2015 è come tentare di nascondere l’elefante dietro al proverbiale palo della luce: semplicemente non si può. Sia Marquez che Rossi che Lorenzo hanno preso il via in questo 2016 con un carico di pressione sulle spalle di difficile rendicontazione, ed altrettanto difficile gestione. Inutile quindi girarci attorno: questo era un mondiale di resa dei conti. Una delle più classiche rivincite, solo giocata in scala globale, su 14 paesi del mondo e lunga nove mesi.

Per vincere questo titolo, Marquez ha dovuto cambiare il suo approccio alla MotoGP ed al concetto di competizione in generale.

Il talento puro, quello che gli aveva permesso di vincere i due titoli, ha dovuto far posto almeno in parte al ragionamento, al compromesso, alla strategia. Tutte parole che il pubblico ama poco, ma che tipicamente rendono molto all’interno di sport con stagioni così lunghe. Un po’ meno cuore, un po’ più testa.

Non è semplice, si badi bene, tenere a bada l’istinto. Non è qualcosa che si può prender e metter via come il vasetto della marmellata da cui si è già attinto troppo copiosamente. In sella ad una motocicletta da corsa è solo l’istinto che ti permette di frenare un metro più avanti o di cercare l’incrocio di traiettorie in un cambio di direzione: in questo turbinare di emozioni, in questo frastuono di reazioni primordiali, trovare un briciolo di razionalità equivale molte volte a superare il sottile confine fra vittoria e sconfitta.

Come diceva Lucio Cecchinello, un uomo che di moto se ne intende da sempre, “il successo in una competizione a due ruote è figlio di tre fattori: 33% pilota, 33% moto, 33% gomma”.

Venendo a Marc Marquez, il primo di questi fattori si ritrova, di nuovo, nel finale dell’anno scorso. Un finale amaro e costellato di polemiche in cui, dall’altra parte della sbarra degli imputati, c’era niente meno che la leggenda vivente del motociclismo. Non è importante, per questo ragionamento, star qui a lambiccarsi su dove stesse la ragione: è importante asserire che per larga parte del pubblico mondiale Marquez in pochi mesi si è trasformato da discepolo prediletto del mondo del racing a cattivo con la faccia d’angelo. Come è facile intuire, quella con Rossi è una rivalità che Marquez non poteva vincere sul piano mediatico o sul “la mia parola contro la sua”. Per vincere questo mondiale, Marquez lo doveva fare lontano da Valentino, sia per distacco che per fisicità. Ben conscio che se mai si fosse ritrovato appaiato alla resa dei conti le galassie sarebbero scoppiate definitivamente.

In secondo luogo, Marquez ha dovuto confrontarsi, all’inizio dell’anno, con una delle peggiori creazioni Honda degli ultimi anni. Mentre la RC213 del primo Mondiale era semplicemente imprendibile per velocità e perfezione ingegneristica, il prodotto della casa di Tokyo di quest’anno non era al pari delle colleghe Yamaha e Ducati. Scontrosa, scorbutica e spesso incomprensibile, la Honda di quest’anno ha costretto Marquez ad un altro modo di vedere le corse. Talento e “garra” dovevano essere accantonate, all’inizio, in favore di pazienza e piccoli ritocchi sapienti. Ad inizio anno, Marquez ha detto alla Honda di fidarsi di lui nella prima parte del Campionato, garantendo a Nakamoto San che lui avrebbe saputo fidarsi della moto per la seconda metà. E così è andata. La nuova Honda e il nuovo Marquez sono cresciuti insieme, vincendo sulle piste tradizionalmente favorevoli -tipo Austin- e mettendo punti in saccoccia laddove il sapere collettivo del box giapponese sapeva di non potere competere.

Infine, il terzo e altrettanto decisivo aspetto su cui Marquez ha costruito questo titolo Mondiale è quello delle gomme: quelle Michelin così nuove e così inintelligibili arrivate quest’anno sull’asfalto del Motomondiale. I piloti hanno ribadito in più occasioni che una delle principali caratteristiche di queste gomme è che non ne esiste una giusta o una sbagliata. Ogni copertura andava bene, se messa a sistema con un determinato stile di guida, determinate temperature, determinate caratteristiche dell’asfalto. Una serie di variabili talmente complessa da essere talvolta senza soluzione, specie per gli uomini Yamaha che ne hanno dovuto subire le bizze e le contraddizioni e che con le gomme hanno ingaggiato per tutto l’anno una lotta senza quartiere, modificando scelte a più riprese durante tutti i weekend.

Dire che in questo 2016 Marquez ha battuto Rossi o Lorenzo non è fare un’analisi corretta della questione. Marquez ha in primo luogo battuto il vecchio Marquez, quello che vinceva solo di polso, di moto e di talento. Probabilmente il vecchio Marquez, quello del 2013, non avrebbe vinto quest’anno: sarebbe stato preda della pressione, di una moto originariamente lontana dal suo stile di guida e di gomme con cui era necessario venire a patti, se non si voleva finire per terra. Quello del quinto titolo è un uomo, e un pilota, completamente nuovo, per alcuni versi molto più temibile del precedente, perchè più esperto, più calcolatore e meno incline al rischio.

Non è detto che la maturazione di Marquez sia completa: a soli 23 anni ha ancora molto margine di miglioramento e molti altri errori da commettere, prima di definirsi un pilota esperto. Certo è che questo quinto titolo non è figlio della casualità.

Anzi, se per caso vi è capitato di passare da quelle parti, saprete che per gli indiani, proprio il 5 è il simbolo della crescita.