In Marketing Sportivo

NBA

Una seconda pelle

Nel mondo dello sport ci sono poche cose così iconiche come le divise da gioco. Repliche ufficiali, throwback, authentic, vecchie o nuove, le cosiddette “jerseys” sono allo stesso tempo un fondamentale strumento di marketing e -più emotivamente- uno straordinario oggetto del desiderio per fans e appassionati di tutto il mondo.

Non è errato in questa prospettiva dire che le maglie rappresentano un fortissimo strumento di contatto fra il tifoso e i giocatori: è questione di fede, ma anche di -si perdoni l’iperbole- tentativo di immedesimazione. C’è qualcosa di magico nell’indossare gli indumenti con cui gli eroi dei campi da gioco compiono le loro gesta, come se un po’ della loro forza e del loro talento passasse a noi. Come se ci identificassimo e ci sentissimo rappresentati. Se non ci credete, date per la prima volta ad un bambino appassionato di calcio la maglia originale di Ronaldo o ad un amante del basket la canottiera di Stephen Curry: la prima cosa che inevitabilmente faranno sarà quella di emulare il gesto sportivo più famoso del loro beniamino. Con la numero 30 dei Warriors addosso, chiunque di noi cercherà di buttare una cartaccia in un cestino per poi battersi il petto e baciarsi il pugno mentre indica il cielo. Siamo fatti così.

Come si può ben capire, e tornando a temi più terreni, il potere che circonda le divise da gioco è oggetto di grande approfondimento per molti ricercatori di marketing sportivo nel mondo. In primis per evidenti fattori economici, in secondo luogo per paradigmi culturali ed infine per ragioni di trasversalità della materia.

Partendo dal fondo, è assai interessante notare come lo strettissimo legame fra il tifoso e l’amore per la maglia (fisicamente intesa, e non come metafisica della squadra del cuore) sia un aspetto comune alla totalità degli sport. Potrà apparire banale, ma le divise dei grandi campioni sono un minimo comune denominatore praticamente di tutti gli sport: dalla canottiera di LeBron alla 10 di Messi, dal cappello dei New York Yankees alla polo nera degli All Blacks, le divise accomunano tutti i tifosi del mondo. E sono, mano a mano, diventati oggetti di moda, simboli di appartenenza.

Non è sempre stato così: le faccende di marketing si appoggiano sempre a determinati pattern culturali e questa storia non fa differenza. Basterà andare a cercare le foto di qualsiasi evento sportivo degli anni ’50 O ’60 per scoprire che allo stadio (o al palazzo dello sport o all’autodromo) si andava in giacca e cravatta o, per i colletti blu, in jeans e pullover e non certamente con la divisa della squadra.

Nel suo “Consuming Sports” del 2004, Garry Crawford analizza bene questa modifica nel comportamento del tifoso, che coincide con i diversi modi di consumare il prodotto sportivo mano a mano che il prodotto sportivo diventa parte del tessuto culturale.

Inutile qui scendere in dettagli, ma certamente ciò basta a comprendere il forte telaio teorico che sottende un assunto in realtà abbastanza semplice: nello sport marketing di oggigiorno non esiste accordo più importante che quello per la produzione di divise di una grande squadra, atleta o lega sportiva.

Divise NBA: Canotte a nove zeri

A partire dalla stagione 2017-2018 (quella attualmente in corso), Nike ha rimpiazzato Adidas come fornitore delle divise della National Basketball Association, la principale lega di pallacanestro del pianeta e -con buona approssimazione- una delle più imponenti corazzate sportive del mondo. Di nuovo, non è superfluo notare che nella massime leghe americane le Kit Sponsorship non vengono stipulate dalle singole squadre, come accade in tutti gli sport europei, ma vengono concordate direttamente “ex autoritate” dall’alto, direttamente dagli uffici marketing della lega.

Ci sono diversi ordini di ragioni dietro questa scelta. Dapprima, a livello di comunicazione e immagine coordinata, il kit unico garantisce uniformità e solidità di brand. Inoltre, e non è di secondaria importanza, ribadisce costantemente un rapporto (ed un’economia) fra lega e squadre che negli Stati Uniti è profondamente gerarchizzato, con le leghe a farla da padrone e le squadre a far collettivo sottostante (in Europa questo sarebbe impossibile, vista la straordinaria forza di Club centenari e la relativa debolezza di associazioni gestite in maniera mediocre).

Mettendo mano alla calcolatrice, l’accordo fra Nike e la National Basketball Association vale, dollaro più dollaro meno, circa 125 Milioni di dollari all’anno per un totale di 8 anni e un miliardo di dollari. L’accordo precedente, stretto da Adidas e della durata di 12 anni, ne valeva “appena” 400 Milioni. La sostanziale differenza fra le due cifre è data dal ragionamento che si è abbozzato poc’anzi: non solo l’importanza strategica della “jersey” nel mondo del marketing sportivo è in costante ascesa e i brand litigano per possederne i diritti, ma le stesse economie dirette del prodotto divisa sono in forte espansione. Le maglie vendono a numeri da capogiro e, grazie alla capillarità del commercio elettronico, sono facilmente disponibili a fan e collezionisti di tutto il mondo che attendono con ansia l’ultima release della jersey favorita.

Proprio in tal senso non stupiscono le numerose iniziative che negli anni hanno portato al moltiplicarsi del numero di divise per ogni squadra. Se in origine ogni squadra possedeva unicamente due divise, una per le partite in casa e una per le trasferte, con il passare degli anni le opzioni si sono decuplicate per ciascuna squadra: home, alternate, third, classic nights, swingman throwback, trophy, per non parlare delle edizioni speciali per i giorni speciali, come quella per la notte di Natale, per le Notti Latine o per il Giorno di San Patrizio. I soli Cleveland Cavaliers hanno avuto a disposizione per la stagione 2016-2017 circa 12 divise diverse.

Alla presentazione ufficiale delle nuove divise -che comprendono top, shorts e i nuovi tight- il brand dell’Oregon ha svelato le tante novità portate sul tavolo a partire dalla stagione 2017-2018. Le nuove divise hanno, questo dice il marchio, una migliore vestibilità, una rinnovata capacità traspirante, sono più leggere, più “veloci” e più sostenibili, poichè sono in parte ricavate da materiali plastici riciclati, oltre che dal famigerato Alpha Yarst. Nike dichiara pubblicamente che in ogni maglia dell’NBA ci sono circa 20 bottiglie di plastica: una mossa particolarmente smart in un’epoca in cui le politiche ambientali e di sostenibilità sono nell’agenda di tutti gli influencer mondiali.

Le maglie vengono presentate in stile faraonico, come da tradizione Nike. Un giocatore per ogni squadra viene convocato per un grande unveiling che promette di rivoluzionare il modo stesso di concepire la divisa da gioco. L’ingegneria termica e 3D offre nuove forme a pantaloni e canottiere, scompaiono le maniche introdotte da Adidas, si rivoluzionano molti look, si annulla la tradizionale differenza fra divisa da casa e divisa da trasferta, con la squadra di casa a scegliere la maglia preferita e gli avversari a sceglierne una in contrasto. Delle decine di varianti di colore, ne rimangono solo 4, per tutte le squadre: Icon, Statement, Association e un quarto modello che verrà svelato nella seconda parte della stagione. La nuova era è finalmente iniziata.

Love will Tear us Apart

Eppure accade qualcosa che nessuno aveva previsto. Il 17 Ottobre, nel season opener contro i Boston Celtics, la divisa di LeBron James si apre a metà dopo una azione in post basso contro Jaylen Brown. Al numero 1 di Bowerman Drive, a Beaverton nell’Oregon molte bocche rimangono spalancate davanti allo schermo e più di una camicia inizia ad essere sudata fradicia. Dopo pochi minuti di stagione regolare, la maglia più venduta delle ultime 12 stagioni di NBA si è stracciata come un fazzoletto di carta in diretta mondiale sulle spalle dell’uomo che è diventato il simbolo stesso della casa con lo swoosh. Lo strappo fra il 2 e il 3 sulla schiena di James fa il giro del mondo, su Twitter, su Facebook, sugli approfondimenti di ESPN, The Ringer, NBA TV.

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Purtroppo per Nike non è la prima volta che accade, alle nuove divise, di stracciarsi. E non sarà neanche l’ultima. Il 30 settembre, nella gara di preseason fra Lakers e Timberwolves, la maglia numero 10 della guardia giallo-viola Tyler Ennis si strappa come carta velina all’altezza dei numeri, lasciando lo 0 penzolante a sbandierare per il campo.

Il 27 Ottobre, durante un alterco sotto canestro con Bradley Beal nella partita fra Wizards e Warriors la divisa di Draymond Green si polverizza completamente. Certo, c’è stato un po’ di tira e molla, ma niente che possa giustificare il macello con cui il numero 23 di Golden State esce dal campo. Lo stesso accade il 3 Novembre a Ben Simmons, dopo un po’ di convenevoli non esattamente di oxfordiana memoria con Lance Stephenson e il 5 Novembre a Kevin Love e più avanti a Dwayne Wade. Insomma, è ufficiale, esiste un“ripgate”, o “teargate” a seconda di quale costa degli Stati Uniti preferìate.

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Nike è lesta a mandare un comunicato: “During game play we have seen a small number of athletes experience significant jersey tears. We are very concerned to see any game day tear and are working to implement a solution that involves standardizing the embellishment process and enhancing the seam strength of game day jerseys. The quality and performance of our products are of utmost importance and we are working with the NBA and teams to avoid this happening in the future”.

Poi, meno ufficialmente ma altrettanto pubblicamente, offre un lato più conveniente della medaglia spiegando che parte della colpa può anche essere attribuita ai vari fornitori locali che applicano nomi e numeri sulle maglie di ogni squadra.

Maglie Nba: divise da gioco o divise da scaffale?

Il 23 ottobre, nell’episodio di Full Size Run condotto da Rich Maze Lopez di Sole Collector’s, lo staff della trasmissione si interroga sull’effettiva resistenza delle nuove divise della National Basketball Association. Se le divise si sgretolano con una tale facilità, si argomenta in trasmissione, non dovrebbe essere difficile stracciarne una in diretta. Invece, ovviamente, niente. La maglia portata in trasmissione resiste bonaria e pacifica agli strattoni dei conduttori mentre qualche ascoltatore commenta ironico: “bella figura che avete fatto”.

C’è poco da stupirsi, direte voi: c’è una sostanziale differenza fra uno strattone di Bradley Beal e quello di un comune ragazzo come tanti altri. È diverso fare a scapaccioni sotto canestro con Lance Stevenson e farlo contro una guardia di Prima Divisione. In termini fisici di forze coinvolte siamo su pianeti opposti. In realtà, il tema è di interesse non solo fattivo, ma anche di scuola. La domanda, dal punto di vista del marketing, è: “Chi è il target ultimo delle nuove divise di Nike? È una divisa per il giocatore NBA o per il tifoso NBA?”. Ha senso interrogarsi.

Come ben sanno i grandi appassionati, fino a circa una decina d’anni fa c’era una differenza sostanziale fra le maglie da gioco ufficiali usate sul campo e quelle disponibili per i fan. Se mai avete avuto occasione di stringere fra le mani una vera divisa NBA degli anni ’90 vi sarete accorti delle immense differenze che c’erano con il mondo delle repliche cui eravamo abituati: tessuti spessissimi, super sintetici e quasi per nulla traspiranti, numeri e loghi e lettere cucite a doppio punto, bordi e margini rinforzati ed un peso complessivo spesso attorno al chilogrammo. Era un oggetto impossibile da usare nella quotidianità: era uno strumento da lavoro.

Per i motivi sopraccitati di consapevolezza del fan e sovrapposizione dei due mondi, oggi la divisa acquistabile per 199$ sull’NBA Store è esattamente la medesima che indossano anche i giocatori sul parquet tutte le notti della Stagione NBA. Questo per una questione evolutiva del fan che chi si occupa di sports marketing conosce bene: il pubblico non vuole più la replica, vuole “the real thing”, la cosa vera, vuole azzerare la distanza dai suoi eroi. Le nuove divise sono leggere, eleganti, morbide, distanti anni luce dai corpetti piombati di quindici anni fa. Sono più umane, più facili per il pubblico di tutto il mondo, più portabili. Paradossalmente, invece che portare il tifoso più vicino al giocatore, hanno portato il giocatore più vicino al tifoso.

Sono divise perfette per il pubblico, ma non più adatte ai giocatori, che non ne possono neppure apprezzare alcune delle feature.

Un esempio. Le nuove divise Nike (quelle ufficiali) sono infatti dotate di tecnologia Jersey Connect: ogni maglia contiene un chip NFC che può essere scansionato tramite smartphone per spalancare una moltitudine di contenuti digitali per i fan. Attraverso la maglia del proprio beniamino, il tifoso riceve sul telefono immagini esclusive del pre partita, playlist personalizzate, accesso a contest unici. Dall’altro lato, Nike arriva al livello di profilazione di marketing più alto possibile, conoscendo nome, cognome, taglia, luogo di acquisto, giocatore preferito e localizzazione dei suoi clienti. Fra un po’, e potete scommetterci, non sarà infrequente vedersi arrivare notifiche personalizzate e ed estremamente puntuali quando si passa nelle vicinanze di un Nike Store. Infine, meraviglia del cross marketing, per chi attiva la tecnologia Jersey Connect arriva anche un bonus di punti da usare in NBA 2K18 per il giocatore di cui si è acquistata la maglia. E il cerchio è completo.

Non è la prima volta che i brand di abbigliamento sportivo cercano il perfetto equilibrio fra la tecnologia per lo sport e l’usabilità per tutti i giorni. Qualche anno fa sempre la stessa Nike si pose un quesito simile con le divise della NFL, la lega professionistica di Football Americano. Le divise da Football, che sono anche più vendute di quelle da basket (non tanto per ragioni di grandezza di mercato, quanto -banalmente- perché una maglia a maniche corte è più portabile di una canottiera traforata) avevano un enorme problema: erano progettate per essere usate sul campo da energumeni di stazza gigantesca che, oltre a fisici imponenti, le dovevano indossare sopra le massicce protezioni. Non appena divenne fornitore ufficiale dell’NFL, Nike provvide subito a ridisegnare la vestibilità delle maglie, dando tagli più slim, modaioli e svasati alle sue jersey. Ancor una volta a porsi delle domande furono gli stessi giocatori sul campo che in più di un’occasione dichiararono che era sostanzialmente impossibile giocare con divise così striminzite.

In medio stat Virtus

Come per tutti i casi, capire dove stia il giusto punto di equilibrio è assai complicato. Scarpe da gioco, divise, felpe e una moltitudine di atri oggetti ed accessori nati per il campo hanno completamente sfondato la barriera fra l’atleta superstar professionista e il grandissimo pubblico di tutto il mondo. Con qualche centinaia di dollari e un paio di giorni di attesa per la spedizione, qualsiasi ragazzino di Singapore, Brisbane, Lione o Pittsburgh può vestirsi come Paul George, Isiah Thomas, Steph Curry e chi più ne ha più ne metta. Vale per il basket, ma anche per il calcio, per il rugby e per la maggioranza degli sport.

Se da un lato tutto questo mette tristezza ai puristi del gioco, non si può sottovalutare la componente emotiva, onirica e di fidelizzazione che questo ha sul tifoso. Tifoso che non solo è l’asset principale di qualsiasi operazione di marketing sportivo, ma che investe sempre più denaro nei suoi eroi preferiti e nel tentativo di essere sempre più vicino a loro. Questo, per qualunque azienda e per qualunque squadra, non è in alcun modo trascurabile. Non almeno in un mercato in cui, lo dice il Mirror, il markup medio su una divisa sportiva ufficiale è nell’ordine del 2000%: una divisa del Manchester United che viene venduta a 80,00 GBP (manica corta), ha in realtà un costo di confezionamento di 4.95£*.

Certamente, confezionare capi d’abbigliamento tecnico che non sono “up to the job” come dicono gli anglosassoni non conviene a nessuno: è evidente che il danno d’immagine che un’azienda come Nike riceve dall’immagine delle sue divise che si strappano sulla schiena dei più grandi campioni dello sport non è neppure calcolabile. Ma lo sforzo che in generale si sta facendo per rendere il gioco più vicino al consumatore vale il rischio corso, specialmente nei primi mesi del primo anno di contratto.

 

 

 

 

 

 

 

*http://www.mirror.co.uk/sport/football/news/replica-football-shirts-rip-fans-7455562

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Emanuele Venturoli
Emanuele Venturoli
Laureato in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica all'Università di Bologna, è da sempre appassionato di marketing, design e sport.
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