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Su queste pagine non avevo ancora toccato il tema del ritorno di LeBron a Cleveland. E’ un argomento che mi sta a cuore e per il quale avrei voluto ritagliare un po’ di tempo, evitando di scrivere le mie abitudinarie fesserie. Eppure, tant’è.

In tempi non sospetti infatti, e precisamente nel Gennaio 2013, avevo scritto un post dal titolo “LeBron James. Se torna a Cleveland io vado in America” che elencava pedissequamente le ragioni per cui il Prescelto avrebbe potuto fare ritorno in terra d’Ohio. Ci credevo talmente poco anche io che, come nella pubblicità dell’Unipol, mi ero giocato un viaggio in America. Ora mi toccherà andarci, magari con il Mago Silvan.

Lo spunto per queste righe, che sottraggono tempo ad altre occupazioni d’agenzia forse più importanti, nascono da un post su LinkedIn che titola qualcosa tipo “L’effetto SuperStar. Ecco quello che LeBron James può insegnarvi sulla vostra carriera lavorativa”.

L’articolo, di cui non cito nè il titolo originale nè l’autore per rispetto nei confronti di entrambi è il tipico guazzabuglio motivational-crossplatform-filosofico di cui si sta inspiegabilmente riempendo quello che una volta era un network per professionisti e che ora va colmandosi apparentemente di post tardo adolescenziali tipo “La vita è come un’eco: quello che mandi ti torna indietro” oppure “I vincenti si concentrano sul vincere, i perdenti si concentrano sui vincenti”.

L’articolo in questione, con una strategia retorica poco convincente e almeno tre o quattro feroci arrampicate sugli specchi, dice a grandi linee che il ritorno di James a Cleveland (con lo stipendio che ne consegue) deve insegnare a chiunque di noi che “nello sport come nella vita il ruolo di superstar è legato a doppio filo allo stipendio” e che “If you’re first, you’re first by a long shot” ovvero, quando si è primi in qualcosa, il distacco dal resto del gruppo è amplissimo.

Inutile dire che non sono convinto sulle suddette teorie, così come non sono convinto del fatto che la parabola di James necessariamente si debba leggere come metafora della carriera lavorativa di ognuno. Voglio dire che mi pare un po’ una forzatura sovrapporre le traiettorie di uno dei 10 atleti più influenti del mondo con quelle di un normale lavoratore. Se riteniamo per forza necessario trovare qualcosa da imparare dalla storia di LeBron, credo che il tutto si possa riassumere molto semplicemente nel fatto che il successo dipende dalla coesistenza di molteplici fattori: il talento, il corretto momento storico, l’attitudine mentale, un lavoro duro e continuativo verso il miglioramento.

Ciò detto, ridurre il ritorno di LeBron James a Cleveland ad un puro discorso economico significa sottostimare enormemente il significato di questa mossa. I soldi, se c’entrano, c’entrano solo in minima parte. Il 62% delle entrate del prescelto provengono da contratti di Endorsement, e i 42 Milioni di stipendio sarebbero probabilmente arrivati in offerta anche da altre 10 franchigie NBA.

Ritornare in Ohio, e questo è come la vedo io, è una questione di Redenzione. Con la R maisucola.

Quando 4 anni fa se ne andò agli Heat, James fece una scelta precisa: accollarsi il disonore del “tradimento” per provare a vincere qualcosa prima che fosse troppo tardi. Da allora per il Prescelto sono passate 4 Finali NBA, 2 titoli vinti, svariate medaglie e 4 MVP. Era andato per vincere e ha vinto, e di questo occorre dargli atto: ha barattato il successo sportivo con il peso di avere metà del mondo contro, di vedere la sua canottiera dei Cavs bruciata per le strade e di avere la sua città natale in rivolta contro di lui.

Tornare a casa, come lo stesso ex numero 6 degli Heat lo ha definito, significa provare a riconquistare tutto quello che si era perduto e compiere l’impresa storica. Chiamatela questione di immagine, di coscienza, di affetti, ma certamente non è per ragioni sportive o per ragioni economiche. O almeno non solo.

Per come la vedo io, c’è una sottile differenza fra un grandissimo giocatore e un grande campione. Per entrare nella seconda categoria bisogna fare qualcosa di magico, di fuori dal normale, anche di emotivamente trascinante. Tornare a casa da figliol prodigo è esattamente questa operazione e se funzionasse LeBron entrerebbe nella leggenda non di questo sport, non dello sport, ma degli Stati Uniti. Perchè non c’è niente di più americano che tornare a casa, dopo aver vinto una guerra.

E tutto questo, pensatela come vi pare, ha davvero poco a che fare con le nostre carriere lavorative.

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Emanuele Venturoli
Emanuele Venturoli
Laureato in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica all'Università di Bologna, è da sempre appassionato di marketing, design e sport.
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