In Formula 1

daniel-ricciardo_montrealDiceva quel tale che i campioni sono quelli che si alzano anche quando non possono più farlo. In tal senso io credo vada letta la vittoria di Daniel Ricciardo al Gran Premio del Canada di ieri: un guizzo d’orgoglio non solo dell’australiano ma di tutta Milton Keynes e di tutta la Red Bull.

Si badi bene, la Mercedes è ancora lontana anni luce e quella di ieri è semplicemente una leggera flessione in cui non bisogna commettere l’errore di leggere l’incipit di un disastro tecnologico o l’inizio della “remuntada”; però la Red Bull ha saputo mettere la zampa proprio là dove è stato il primo calo di Stoccarda, e questo è un grande merito.

La monoposto dell’Energy Drink è cresciuta, e pure parecchio, dopo un inizio di stagione che definire disastroso è eufemistico. Dopo 4 anni di dominio incontrastato, i tori sono stati surclassati, doppiati, mazzolati e chi più ne ha più ne metta. La sconfitta, se possibile, è ancora più dura quando segna la fine di un impero, e così è stato per la scuderia austro-britannica. Eppure, e qui sta il pregio, Newey, Horner, Vettel e Ricciardo hanno mostrato carattere, orgoglio e la voglia di non farsi mettere sotto da nessuno. A dimostrazione di questo c’è l’abbraccio, bellissimo e liberatorio, fra Vettel e Ricciardo nel Parc Fermè di Montreal di ieri, testimonianza che -mai come oggi- si vince e si perde tutti insieme. Palla lunga e pedalare.

E’ un peccato, dunque, constatare che la stessa cosa non è avvenuta a Maranello. Anzi, la Ferrari oggi è una grande nobile decaduta, dall’innegabile blasone ma dai risultati mediocri, per non dire scadenti. Alonso sesto e Raikkonen decimo sono il segno più evidente di una profondissima crisi di idee, di morale, di vision e d’orgoglio.

In casa Ferrari si è parlato tanto e fatto poco. Colti ancora una volta dall’italica sindrome dell'”a casa l’allenatore” si è mandato via Domenicali pensando di risolvere la faccenda, come se il problema di una squadra di 600 persone fosse solo limitato all’ufficio del Direttore Sportivo, senza ovviamente vedere nessun risultato. Anzi, è singolare vedere che un team che fino a ieri lamentava di fare “automobili e non aeroplani” magnificando le eccellenze dei propri motori vada a fare sesto e decimo nella gara forse più veloce del mondiale (che sarebbero stati ottavo e dodicesimo senza il pauroso schianto di Massa e Perez).

Non si dia la colpa alla Formula 1, al Circus, al sistema, al turbo, eccetera. Troppo facile, troppo superficiale. La F1 è quella di sempre, con i suoi cambiamenti, le sue modifiche, i suoi botti e i suoi sbotti, i suoi sorpassi e le sue gare più o meno belle. In questo sport la Ferrari pecca di tempi di reazione, di coraggio e anche di orgoglio. Non sono i piloti o gli ingegneri o i motoristi: è l’universo Ferrari che è in affanno e pure da diversi anni. Il cavallino è ferito e -peggio ancora- non ha il coraggio di rialzarsi, impaurito dall’ennesima mazzata. Ma così non può funzionare.

Ribadisco, quello di Montreal è un exploit, un episodio in un mare magnum in cui certamente trionferà Mercedes con ambo i piloti nel 99 percento delle gare. Però è un segno, come vuole la semiotica, qualcosa che sta per qualcos’altro, a qualcuno in qualche modo. Voi chiamatela se volete speranza, o orgoglio, o pregiudizio.

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Emanuele Venturoli
Emanuele Venturoli
Laureato in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica all'Università di Bologna, è da sempre appassionato di marketing, design e sport.
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