In MotoGP

Questo è il classico pezzo che io non dovrei scrivere. Non dovrei scriverlo perchè non rientra nelle logiche SEO della nostra redazione, non dovrei scriverlo perchè trattasi di un’opinione personale derivata da un’esperienza personale, ed infine non dovrei scriverlo perchè l’autogol è dietro l’angolo. Eppure, anche a costo di entrare a far parte della già folta schiera di lanciatori di boomerang con scarse capacità di ricezione, non si può ignorare l’elefante dentro la stanza ancora a lungo.

Sono di ritorno dal mio decimo Gran Premio del Mugello, tutti vissuti con il lusso ed il privilegio di un pass al collo. Da una decade (o più, in realtà, perchè in mezzo c’è stata una pandemia e non solo) il Mugello rappresenta per me e per chi fa questo mestiere uno spartiacque decisivo nel corso dell’anno: è l’inizio dell’estate, la fine della scuola, la festa del Paese, la vera Pasqua di questo circo che qualcuno chiama Motomondiale e di cui le moto sono soltanto una parte. Aspettarlo, da sempre è come il Sabato del Villaggio. Superarlo, da sempre, impone riflessioni e grandi respiri.

Il Mugello, da sempre, è l’epitome di cosa significa la MotoGP in Italia e nel mondo. È la gara più amata e più odiata di tutti, perchè è bella e scomoda, faticosa e indimenticabile, pericolosa e meravigliosamente ricca di gioia. Alcuni dei miei ricordi più belli di questo lavoro, di questo mondo e di questi ultimi dieci anni sono e saranno irrimediabilmente legati a doppio filo ai pomeriggi in mezzo alle colline toscane, nel caldo devastante delle sue colate di cemento e negli acquazzoni estivi che inondano tutto in un attimo, giungendo beffardi da dietro l’Appennino. Come il Parmigiano per Cracco, il Mugello è bello sempre, nel fresco piccante della mattina bagnata di rugiada, nel torpore estivo del mezzogiorno, nelle ombre lunghe della sera.

In molti hanno scritto che questo Mugello è stato un Mugello scarso, silenzioso e sottotono. Simon Patterson, penna storica di questo Mondiale, lo ha definito “flat”, piatto, in pieno contrasto con il saliscendi di Casanova Savelli e l’ottovolante delle Arrabbiate. Chi scrive queste righe torna dal suo decimo Gran Premio d’Italia pensando, non senza un filo di rimpianto, che è proprio così.

Al Mugello si dorme

Dicono le stime ufficiali che sono stati 45.000 circa gli appassionati che nei tre giorni della competizione si sono succeduti sulle colline toscane, armati di tenda, pazienza e panino al prosciutto per seguire le gesta del campionato MotoGP.

Quando parte la gara, la folla che si assiepava sulla San Donato è poco più di un puntino e anche qualche fotografo guarda sconsolato le vecchie immagini di un muro umano che oggi, per diverse ragioni, manca.

Nel paddock, anche nell’orario di punta delle undici del sabato mattina, manca quella frenesia, quel traffico, quell’assembramento gioioso, fumante e chiassoso della marea di tifosi, curiosi e appassionati che erano finalmente riusciti a mettere le mani su un pass paddock. Ora si cammina benissimo, non si va a sbattere contro nessuno e non ci si può nemmeno snobisticamente lamentare del dress code di taluni in ciabatte, bermuda e cappello di paglia. “Dite quello che volete, ma è un bel miglioramento fare il weekend così”, dice un addetto ai lavori pigramente appoggiato ad una hospitality, ma neppure lui pare credere alla sua bugia.

La gara in cui non si dorme per antonomasia si è svuotata, da un anno all’altro, di pubblico e faccendieri. Quello che ricordavamo pieno è ora vuoto e silenzioso. All’orario dell’aperitivo, invece del camion di Red Bull da cui esce musica hip hop, c’è un Fiorino bianco che carica una cassetta d’acqua su un bilico.

Le ragioni sono tante, e neppure per forza giuste. Si va da Valentino ai prezzi, dal meteo alla pandemia, dalla congiuntura astrale al governo Draghi (perchè in fondo siamo italiani, e il Governo è ladro a prescindere). Ma in realtà tutti stanno ancora cercando una risposta ad una domanda più importante: che ne è di questa MotoGP, in Italia?

Valeva sempre tanto

In molti hanno puntato il dito contro l’assenza dell’uomo che ha benedetto per più di venti anni il Gran Premio d’Italia con la sua presenza: Valentino Rossi. Il popolo giallo, quello che andava al Mugello per non dormire, per fare le gare con le seghe a motore e cantare Vasco tutta la notte, quest’anno si è presentato in forma ridotta. Nonostante la Dorna abbia cercato di tamponare l’emorragia con il ritiro del numero 46 -come si suole fare in America per i grandi della pallacanestro e dell’hockey- l’assenza del Dottore in sella ad una moto pesa anche emotivamente.

Per anni, Valentino ha schiacciato, a livello emotivo, di marketing e di presenza mediatica, tutto il resto del baraccone. Non è -si intenda- colpa dell’uomo di Tavullia, che ha l’unico demerito di essere dannatamente carismatico, quanto di un pubblico che nonostante le belle premesse è ancora attaccata al Campanile come nell’Italia dei Comuni. Aspettare Valentino, come nella pubblicità del Campari, era più o meno la stessa cosa che aspettare il Gran Premio e poco importa se vincesse o non vincesse.

Si supponeva, si sperava, qualcuno ci aveva anche creduto, che gli italiani si fossero innamorati delle moto. Non era vero: agli italiani gli piace -pronome grammaticalmente errato ma con vena rafforzativa- Valentino. È qualcosa di molto simile a quello che accade con la Ferrari e la Formula 1, dove le audience dei gran premi salgono o scendono a seconda della competitività stagionale della Rossa: se fa prima e seconda tutti in piedi sul divano, se fa dodicesima e DNF questo pomeriggio vado al mare che è meglio. O al parco con mio fratello, che è una vita che me lo chiede.

Concilia?

A chi risponde che di italiani ce ne sono e pure bravi, vedi Bagnaia che ha vinto pure il gran Premio o Bastianini, che di corse ne ha vinte tre, si risponde che la colpa è dei prezzi.

180 Euro per stare su di un prato, che poi magari ci piove pure, anzi, ci piove sicuro. E poi si vede meglio da casa e parcheggiare è un casino.

C’è del vero in tutto questo, poichè solo 15 giorni fa a Le Mans i prezzi erano più bassi del 55% per lo stesso ordine di posto. Ma è anche vero che non scopriamo oggi che l’Italia è cara per una serie di ragioni che è inutile stare qui ad indicare adesso. Sono più cari i prezzi del VIP Village (i più cari del mondo, dopo l’Australia), come è più cara la benzina e l’Autostrada. Anche la Formula 1 è cara, ma Imola era piena e -pregando Dio- lo sarà anche Monza.

Se vogliamo essere onesti, nessuno ha mai badato troppo al prezzo del biglietto per i tre giorni toscani: il Mugello era una festa e una vacanza, come è giusto che sia.

Guardare al futuro

L’opinione di chi scrive, che conta poco e forse conterà ancora meno dopo queste righe, è che il giocattolo non sia rotto ma presenti per una volta un rebus dalle mille facce. Le ragioni e le obiezioni sopra menzionate, come nella scatola del gatto di Schrodinger, sono tutte vere e tutte false contemporaneamente ed hanno senso solo se avvicinate l’una all’altra. L’Italia, la MotoGP, il motorsport e la società vengono da e vivono in un momento particolarissimo. Io non credo all’allineamento dei pianeti, ma questo è qualcosa che ci si avvicina terribilmente.

Innanzitutto è certo che questo sport stia subendo la concorrenza di un altro sport, la Formula 1, che dopo anni di dormiveglia e ultratrenini Mercedes si è improvvisamente dato una scantata ed è tornato ad infiammare cuori e animi. Non c’è più bisogno di alcuna evidenza storica sul fatto che queste maxi serie e maxi campionati siano prima di tutto in gara fra loro per l’attenzione di un pubblico che ora può accedere a tutto e tutti e oggi decide se seguire moto, macchine, calcio inglese o pallacanestro americana.

È altresì fuori di discussione che l’assenza di quello che è stato il grande protagonista per più di quattro lustri abbia un peso specifico non indifferente. Se si ama il motociclista e non la moto è facile che quest’ultima rimanga in garage se il primo va a bere una birra con gli amici invece di andare su per la Raticosa. In verità però i protagonisti non mancano e il futuro prossimo promette ai colori italiani più allori di quanti non ne abbia regalati Rossi negli ultimi cento Gran Premi: agli italiani piacciono gli italiani come è giusto che sia e non sembrano lontani i tempi in cui Ducati o Gresini o Aprilia possono riportare a casa il trofeo avvolto nel tricolore.

Infine, prezzi e pandemia hanno certamente giocato un ruolo, ma neppure questo è da sopravvalutare. Altri eventi, sportivi e non, sono pieni -così come lo sono i bar e le osterie di questa città e di tutte le altre città italiane.

E allora?

Fatta questa lunga carrellata di premesse, e fatto salvo ogni pessimismo sensazionalistico, la verità è forse che in Italia adesso la MotoGP è un prodotto in cerca d’autore e di una sua nuova collocazione nel panorama nazionalpopolare. Non c’è dubbio che questo -in ogni caso- sia ancora un paddock a trazione italo-iberica, in cui la nostra penisola e quella spagnola la fanno da padrone, così come non c’è dubbio che la nostra nazione sia certamente una delle patrie dello sport a motore, a due e quattro ruote.

Misano, dopo l’estate, sarà probabilmente una cartina di tornasole più indicativa. Se le tribune saranno ancora mezze vuote, sarà l’ora di porsi qualche domanda. Se, come possiamo presupporre, la Romagna e qualche mese di sole torneranno ad infiammare i cuori, potremo tirare un sospiro di sollievo.

 

 

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Emanuele Venturoli
Emanuele Venturoli
Laureato in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica all'Università di Bologna, è da sempre appassionato di marketing, design e sport.
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