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Il campionato NHL è ricominciato. Martedì 27 sono riprese le partite della regular season, dopo che le squadre hanno tirato il fiato per un lungo weekend dedicato all’All-Star Game. Weekend in cui i giocatori hanno potuto riposare per riprendersi dagli acciacchi della prima metà di campionato, o, se convocati per la manifestazione, esibirsi per l’ormai tradizionale rassegna di metà stagione.

Di solito, negli anni passati, aspettavo tantissimo l’arrivo dell’All-Star Game. L’opportunità di condensare il meglio del meglio della NHL in due super-squadre non capita tutti i giorni, così come di mettere a confronto due Conference che spesso generano due stili di gioco diversi (e a vedere le classifiche, sembra che sia ancora così). Da non dimenticare poi le skill competitions del sabato, ossia quelle gare di abilità particolari che permettono ai giocatori di mettere in mostra ciò per cui sono principalmente conosciuti: ad esempio, il temutissimo slap shot di Zdeno Chára o di Al MacInnis, la millimetrica precisione al tiro di Ray Bourque, il magnetico controllo di puck di Pavel Datsyuk o di Alexei Kovalëv.

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Quest’anno ero impossibilitato a vedere l’All-Star Weekend, per diversi motivi; ma osservando un resoconto di quanto successo tra sabato e domenica in quel di Columbus, OH, mi sono reso conto (scusate il gioco di parole) di non essermi perso un granché. Ho l’impressione che da qualche anno in qua il livello della competizione sia in picchiata.

Era una sensazione già accarezzata durante gli eventi del 2011 e 2012, che quest’anno si è trasformata quasi in certezza. Basta vedere ad esempio il risultato della partita: un 17-12 che dà quasi l’idea della buffonata, più che del grande spettacolo.

Ma partiamo dall’inizio: il formato. Dall’edizione 2011 la Lega ha deciso di non impostare più la partita delle stelle come scontro tra le due Conference o tra due sezioni del mondo, lasciando che le due squadre venissero formate in maniera molto più libera. Vengono scelti due capitani (di cui solitamente uno appartiene alla squadra ospitante) e due assistenti per ciascuno di essi; dopodiché si fanno le squadre come nelle partitelle all’oratorio, scegliendo un giocatore a testa e tirando a sorte, usando un puck a mo’ di moneta, chi sceglie per primo. Unico vincolo: i portieri e i difensori vanno scelti tutti entro un determinato turno. Può quindi nuovamente capitare, come quando la partita si giocava Nordamerica vs Resto del Mondo, che due compagni di squadra si ritrovino l’uno contro l’altro. Nel 2011 capitò addirittura ai gemelli Sedin, scelti uno dopo l’altro dai due capitani.

Si sa che di solito l’intensità che i giocatori mettono in un All-Star Game è inferiore rispetto a una qualsiasi partita di campionato, ma un confronto Est-Ovest o Nordamerica-Mondo dà quantomeno ai giocatori un motivo per battersi, e al pubblico un elemento di curiosità (entrambi i criteri di raggruppamento dei giocatori hanno sempre offerto una contrapposizione tra due filosofie di gioco); in questo modo viene tutto a mancare, e al di là di alcun rivalità personali, non c’è niente che motivi un giocatore a impegnarsi più di tanto, e quest’anno è stato più lampante che mai.

Basta dare un’occhiata superficiale agli highlights per vedere come l’impegno da parte dei giocatori fosse quasi sotto il minimo sindacale (il livello di opposizione da parte dei difensori era praticamente nullo), mentre sembrava che i portieri non tentassero neanche di parare il puck, ma lo fermavano giusto se per caso gli capitava addosso. Per completezza va detto che quest’ultima cosa non è vera, come traspare da un’intervista a Marc-André Fleury (ha dichiarato che i sette goal subiti in un periodo di gioco l’hanno quasi mortificato e che durante le pause di gioco andava a cercare conforto da Roberto Luongo, seduto sulla panchina avversaria), ma l’impressione data purtroppo è un’altra.

Le statistiche personali sono gonfiate a dismisura e rendono nullo qualsiasi confronto con le passate edizioni. Che valore ha, ad esempio, il fatto che Jakub Voráček abbia pareggiato il record di Mario Lemieux con 6 punti in una partita? O le quattro reti di John Tavares, sesto giocatore a riuscirci e primo dal 2003 (Dany Heatley)? Dando poi un’occhiata più approfondita si nota come sui 35 giocatori di movimento solo tre non abbiano ottenuto neanche un punto: Anže Kopitar, Phil Kessel e il tanto acclamato Zemgus Girgensons, cosa che conferma ancora in misura maggiore la farloccaggine delle votazioni, dato il livello generale di impegno. E salta fuori anche il paradosso di giocatori che hanno concluso la partita con 4 assist ma un rating di -2 (Aaron Ekblad e Vladimir Tarasenko).

Una nota negativa ce l’hanno anche le skill competitions del sabato, che tuttavia rimangono sempre di grande interesse e livello. Ormai da qualche anno sono organizzate come una specie di “palio” in cui le prestazioni dei giocatori danno dei punti alla propria squadra. Di fatto, quindi, vi possono partecipare solo i convocati alla partita, mentre la NHL dovrebbe dare visibilità, in ciascuna specialità, a chi ne è più capace; magari lasciando libera iscrizione all’evento integrando l’elenco dei giocatori con qualche invito mirato. Perché ad esempio non dare a Zdeno Chára la possibilità di rinnovare la propria rivalità con Shea Weber per il tiro più potente della NHL?

Ma l’altro grosso problema che mi viene in mente è il novero dei giocatori partecipanti, la cui composizione consiste in tre fasi: votazioni, convocazioni e defezioni. Delle votazioni ho già parlato qualche tempo fa, facendo notare come il tutto il procedimento avesse dei grossi difetti e potesse consegnare (come ha effettivamente fatto) il biglietto d’ingresso alla partita a giocatori del tutto immeritevoli; e non è neanche la prima volta che il problema salta all’occhio: nel 2007 si scatenò una massiccia campagna web per spingere il pubblico a votare in massa un giocatore antitesi dell’All-Star, nella fattispecie il difensore dei Canucks Rory Fitzpatrick. Il piano non andò a buon fine, ma non andò molto distante dal suo compimento. La NHL non ha imparato niente.

Le convocazioni sono quanto di meglio riuscito. Prima della partita ho provato a metter giù i mei 42 nomi, e di essi ne ho azzeccati 26. Tra i rimanenti 16, però, solo di pochi ho criticato molto la scelta (ad esempio la convocazione di Ryan Suter, mentre un meritevole Roman Josi è rimasto escluso), mentre degli altri ho probabilmente fatto qualche errore di valutazione, dovendomi basare, giocoforza, solo su highlights delle partite e qualche statistica. Non sono per niente d’accordo però sulla “regola” che non consentiva ai rookie di prendere parte alla partita ma solo alle skill competitions, perché ad esempio nomi come Aaron Ekblad, Filip Forsberg e Johnny Gaudreau meritavano a pieno titolo di disputarla. In loro aiuto sono arrivate tre defezioni, che hanno permesso loro di entrare nei roster della partita vera e propria.

Ma il livello si è abbassato notevolmente anche per l’alto numero di defezioni, alcune anche all’ultimo minuto. Escludendo ad esempio le assenze di Pekka Rinne, Tanner Pearson (infortunatisi una decina di giorni prima della partita e fermi ancora per un po’), Sergei Bobrovskij (che potendo non avrebbe per niente rinunciato a un All-Star Game davanti al proprio pubblico) ed Evgenij Malkin (ancora fermo ai box), tutte le defezioni per un imprecisato “lower-body injury” dell’ultimo minuto sono parecchio sospette. Già negli anni scorsi il sospetto che molti si prendessero la pausa dell’All-Star Game per riposarsi fisicamente adducendo un infortunio come scusa era talmente forte, che la NHL per un paio d’anni ha istituito la sospensione di una partita per chi si comportava in tale modo.

Far parte di un All-Star team è un onore, ma evidentemente alcuni lo vedono come un peso. Malpensante? Probabile, ma avendo dei precedenti il sospetto putroppo viene.

In definitiva, purtroppo mi viene da chiedermi se avere un All-Star Game di metà stagione abbia ancora un senso o meno. Se non sia diventato tutto un grande varietà, anziché una parata di stelle vera e propria. Quelle divise, poi, che sembrano delle tute da motocross, sono l’ultimo sintomo di un virus circense che sta contagiando l’evento.

Per favore, cercate di sconfiggerlo.

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Silvia Schweiger
Direttore Associato, Marketing Esecutivo e Commerciale di RTR Sports Marketing, una società di marketing sportivo con sede a Londra, specializzata in sport motoristici da oltre 25 anni.
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