In Marketing Sportivo

Come noi europei amiamo sovente ricordare a noi stessi -e come talvolta i recenti accadimenti dimostrano- l’America è tutto meno che un Paese perfetto. Paffutelli, cocciuti, superficiali e un po’ provincialotti, i cugini d’oltreoceano raramente vengono presi sul serio da noi del Vecchio Continente, che li guardiamo come si guardano i parenti del paesello che arrivano per la prima volta a Milano Centrale con il cesto del pane e il caffè quello buono che voi qui mica ce lo avete.

Fatte queste premesse -che come tutte le premesse sono vere e false, utili e inutili allo stesso tempo- il Super Bowl LI andato ieri notte in scena all’NRG Stadium di Houston, Texas può e deve regalarci qualche interessante spunto di riflessione su di loro (i cugini) e su di noi (quelli del vecchio continente). È una di quelle manifestazioni che tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero guardare dall’inizio alla fine: un compito a casa non solo per i professionisti dello sport e dello sport business, ma per chiunque voglia parlare con raziocinio di America e Americanità.

Tom-brady-2017

Super Bowl 2017

Già perchè, e questo sì non è uno scherzo, le vicende del Football arrivano a noi italiani come cronache di frontiera, con quell’eco polveroso da Fievel Sbarca In America che coccoliamo con benevolenza paterna e monodose. Come un mantra, le suddette vicende colorano ogni anno ad inizio febbraio le pagine di qualche blog e quotidiano online, senza però che nessuno si prenda mai in briga di rispondere a qualche banale, ma decisiva domanda.

Senza dubbio, questi cugini sono provinciali e poco educati, ma cantano l’inno del loro paese con la mano sul cuore, invitano un Presidente per il lancio della Moneta, rendono onore alle proprio forze di Polizia e Istituzioni, non si lamentano mai con gli arbitri perchè hanno compreso che esiste la tecnologia, imbastiscono un concerto spettacolare a metà partita, non conoscono tafferugli o sommosse prima o dopo la partita, tifano per la loro squadra senza bisogno di ordini di sicurezza o settori protetti o ingressi differenziati.

Tutte sciocchezze, senza dubbio, ma fa sorridere che mentre ad Houston va in scena la più importante partita del mondo -più di 117 Milioni di apparecchi collegati nei soli Stati Uniti- nella notte fonda del nostro paese si stia ancora polemizzando a reti unificate sul rigore non concesso dall’arbitro in una sgambata di metà stagione fra la quinta in classifica e la vincitrice dell’ultima mezza dozzina di scudetti consecutivi del nostro campionato di Calcio.

Intendiamoci bene: non si tratta di palla ovale contro palla tonda, football contro calcio, sistema America contro sistema Italia, bravi contro cattivi o scapoli contro ammogliati. Il tema in questione non è di relativismo sportivo, ma di assolutismi che prima di tutto sono culturali. C’è un che di assolutamente patriottico, orgoglioso e molto intimo in quella partita che, spesso nei suoi modi grossolani, sgraziati e un po’ carnevaleschi, ferma una nazione al punto tale da intervistarne il Presidente unicamente per chiedere un pronostico (peraltro, tragicomicamente azzeccato alla quasi perfezione).

Gli americani sono certamente manchevoli in tantissime cose, ma sono assolutamente speciali nel rendere i loro principali eventi sportivi un momento di importanza nazionale, famigliare e individuale. Tutto il Super Bowl non è altro che questo: una straordinaria, elefantiaca celebrazione di una Nazione e dei suoi rappresentanti. Perché, certo, quella a Stelle e Strisce è una nazione spaccata e lacera -forse mai come ora- ma che diventa unica e coesa come non mai nella notte della Finale più importante. A noi tutto questo semplicemente manca, inutile nasconderlo.

E poco importa, pensiero laterale, che quella di ieri sera sia stata una delle più straordinarie partite del Football moderno, con la consacrazione di una squadra (i Patriots), un coach (Belichick) e sopratutto di un giocatore (Brady) nel firmamento assoluto dello sport di tutti i tempi.

Questi cugini, forse, hanno ancora qualcosa da insegnarci.

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Emanuele Venturoli
Emanuele Venturoli
Laureato in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica all'Università di Bologna, è da sempre appassionato di marketing, design e sport.
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