Fa freddo a Manchester. Quel freddo che solo l’Inghilterra del Nord sa regalare. Se ci sei stato, quel freddo te lo ricordi, quel freddo umido, liquido, contro cui non puoi nulla, se non rassegnarti. Sembra nebbia, appiccicosa e densa, la coltre che copre perennemente questa città, tanto che qualcuno disse che qui o giochi a calcio, o suoni la chitarra o ti droghi. Non ci sono alternative. Fa freddo ed è buio, e tutta la città di mattoni gialli e tetti scuri vibra di un tremito unico, unisono, un barlume che tutto stringe e ricopre. Erano tutti minatori qui, fino a vent’anni fa, forse meno. E questa città non è poi così cambiata, così come non sono cambiati i visi, che vedi stretti nei baveri delle giacche, gli occhi ingrigiti del Nord Europa per anni di disoccupazione e rivolte. Se pensate che siano storie vecchie, forse non avete capito. Andate a Bradford, a Hulme, ad Ardwick. Entrate in un Pub di Cheetham Hill come il Derby Brewery Arms al 96 di Hill Road e guardate come vi fissa la gente, se venite da fuori. Vi garantisco, è lontana la Spagna, da qui. E’ lontana anni luce. Se ci sei stato, qui, te lo ricordi.
Ieri. Sono le 19.44, Old Trafford, Sir Matt Busby Way, Manchester. Le 75,811 sedie dipinte di rosso sono tutte piene. Qui ci si gioca la storia. O meglio, per l’ennesima volta va in onda la storia. Manchester United contro Real Madrid, due dei club più forti di sempre che si giocano gli ottavi di Finale della Coppa più prestigiosa, quelle con le orecchie dei Campioni d’Europa. Non è neanche più calcio, perchè in queste occasioni, i 22 in campo sono ventidue superstar. Te la giochi sui nervi, sulla tattica, sull’improvvisazione, sul colpo di genio, sull’episodio. Da una parte ci sono 19 Premier League vinte, dall’altra 9 Coppe dei Campioni in bacheca. Di cosa stiamo parlando.
E proprio mentre sei lì che stringi la maglia e i pugni nell’attesa del fischio iniziale, succede una cosa per cui tutto si ferma. Dagli altoparlanti, la voce dello speaker annuncia “And a special welcome back home for number 7, Cristiano Ronaldo“. Lo stadio prima si gela e poi esplode in un’ovazione, un applauso che dura esattamente nove minuti nove. Quando la voce dello stadio si leva, Ronaldo, il figliol prodigo, si dirige in mezzo al campo, alza una mano in cenno di saluto e resta lì a capo chino per un po’, pagando omaggio a quello che è stato il suo stadio, il suo pubblico, quello che lo ha lanciato definitivamente nel firmamento del pallone. Se ci sei stato, qui, te lo ricordi.
Ed in quel momento, tu che guardi e hai la pelle d’oca, capisci che sta succedendo una cosa speciale. Questo non è il pubblico che omaggia un vecchio campione, ma un grande campione che paga rispetto ad un nome, ad una maglia, ad un pubblico che è ancora il suo pubblico. Per un istante, solo un istante, non ci sono supercar faraoniche, fidanzate da copertina, pubblicità di Armani e yacht da vacanze tropicali. Per un attimo c’è solo calcio, ed è bello.
Passato quel momento, poi, il campione si rimette a giocare per davvero e per la maglia che porta. E con la solita zampata sorniona mette la firma anche su questa partita, spedendo i Diavoli Rossi di nuovo nel baratro. Real Madrid ai quarti, in attesa dei sorteggi. Potrebbe essere Barcellona, Milan, Borussia, PSG, non importa, perchè a questo punto di squadrette non ce ne sono più. La possono vincere tutti, o quasi.
Sono passati 1,046 giorni dall’ultima volta in cui Cristiano Ronaldo aveva messo piede su quest’erba e questa era la sua 18esima partita di Champions League all’Old Trafford. Le ha vinte tutte e diciotto, diciassette con la maglia dei Red Devils. Alla fine del match, un bambino inquadrato dalle telecamere ripone con le lacrime agli occhi un grande striscione. Sullo striscione sta la scritta “Ronaldo we still love you, just please don’t score“.
Si torna a Bradford, a Hulme, ad Ardwick. Domani è mercoledì. Se ci sei stato, qui, te lo ricordi.
By Emanuele Venturoli - RTR Sports Marketing Nelle foto: Cristiano Ronaldo ai tempi del Man Utd e con la maglia del Real Madrid Pictures from the web
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