Oggi è un giorno completamente nuovo. All’indomani dell’uscita sgrammaticata della nazionale nostrana dai mondiali carioca, inizia la nuova era, il nuovo corso. Anno zero ab urbe condita, come volevano Tito Livio e i latini: si ricomincia. Il risultato negativo contro un Uruguay certamente non eccelso ha scatenato in patria e negli alti vertici pallonari una Nagasaki emotiva che non si vedeva -ma guarda un po’- dal SudAfrica lippiano. Prandelli a casa, Abete a casa, Balotelli pagliaccio, Pirlo bollito, Suarez cannibale, Verratti predicatore nel deserto, diamoci al badminton, anzi no, al cricket che almeno teniamo la pausa per il tè.
Oggi, come sempre accade quando calcisticamente qualcosa ci tocca, tutto lo Stivale si riempie la bocca di parole vagamente post sovietiche come “rifondazione”, “bonifica”, “capolinea”. Oggi, che la magra figura è stata rimediata dinanzi all’assise globale, tutte le voci forti si levano con insistenza, chiedendo la testa di qualcuno, va bene uno a caso. Fino a ieri, però, quando si poteva buttare la polvere sotto il nostrano tappeto, lubrificando al contempo questo e quell’altro ingranaggio, lustrando questo e quell’altro sorriso, tutto andava bene.
Siamo un popolo curioso, noi italiani, specie quando ci toccano la mamma, la pizza o il pallone. Oggi giriamo per le strade increduli, bestemmiando le turbe celesti che ancora una volta ci hanno mandato un arbitro infausto, l’ennesimo Moreno, probabilmente noto alcolista in patria e pure daltonico, se ha dato quel rosso al Marchisio. Ci dimentichiamo però che tre minuti prima lo stesso arbitro non aveva concesso un rigore ai sudamericani che era grande quanto una casa cantoniera. Certo, Suarez è un imbecille di proporzioni elefantiache, ma noi in attacco avevamo Casper e i suoi fratelli. Ora, senza arrivare ai denti, ma i nostri attaccanti una grinta del genere se la sognano.
Voglio dire, ma che davvero lo scopriamo oggi che siamo scarsi? Quella di ieri forse è una serata sfortunata, può darsi, ma se si perde dal Costa Rica e si perde dall’Uruguay significa che ai mondiali si va a far vacanza. Non me ne vogliano le pur civili formazioni caraibiche e sudamericane, ma non stiamo parlando di Germania e Brasile, e che diamine. E noi siamo quel che siamo: una formazione modesta che gioca un calcio modesto, noioso, vecchissimo, senza talento e senza condizione atletica.
Eccola lì, la verità, senza girarci troppo attorno. Una verità ribadita dalle prove mediocri della Nazionale, dai risultati osceni dei nostri club in Europa, dalla qualità dei nostri under 25, dal clima di barbarie che si respira fuori dagli stadi tutte le domeniche. E’ lo specchio di un paese, per quanto suoni retorico, per quanto dispiaccia e per quanto -misteriosamente- continuiamo a dimenticarcene. Come sempre accade, nei mesi prima, ci raccontiamo la favola bella della manciata di eroi che tremare il mondo fa, poi puntualmente torniamo a casa con le corna rotte, i nostri lucenti astri malconci dopo avere preso botte da orbi per tre gare e non averne ridata indietro neanche una.
Mettiamoci il cuore in pace: il calcio non si rifonda entro giovedì mattina, i giovani buoni non spuntano dalla terra dei vivai di provincia come le begonie e la mentalità nuova non si instilla attraverso qualche “ahimè” in mondovisione. Ci vuole tempo, ci vorrà tempo. Come per tutto quello che finisce ci vuole un po’ di distacco, ora, e lasciare decantare. Prendiamoci un po’ di tempo anche noi, partiamo con lo smettere di magnificare e glorificare un mondo marcio e logoro come quello del nostro calcio. Pretendiamo trasparenza, coerenza, stabilità, solidità dai nostri club, dai nostri presidenti, dal nostro movimento. Impariamo a fare del calcio una festa domenicale, non un motivo di rissa, perchè il pallone può e deve essere una ricchezza sociale, economica e sportiva, mica la guerra mondiale in 52 fascicoli annuali.
Oggi è morto un ragazzo, per il pallone, perchè ci si spara fuori dagli Stadi. Siamo questi. E siamo molto peggio di quel che crediamo di essere. Ciao Ciro, che schifo di mondo.
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