“Maaaaaaaaarc”
“Sì mama?”
“Vuelve a casa”
“Espera un momentito mama”.
Le voci di mamma e figlio corrono rapide fra le vie del paesino. Sono un alito di vento che si perde fra i muri di mattoni e attorno al campanile della cattedrale, fino a sciogliersi nel gran caldo del pomeriggio spagnolo. Sono le voci di tante mamme e tanti figli, tutte uniche, tutte meravigliosamente identiche. In cima ad una scala di gradini segnati dalla polvere, Roser aspetta il figlio scrutando l’orizzonte, i pugni stretti sui fianchi. E’ una donna energica e robusta, i capelli tagliati alla spalla, gli zigomi larghi ed un grembiule di canapa bianca adagiato sulla spalla. E non ha la minima idea della piega che prenderà la vita da qui a qualche anno.
Cervera, paesino di 9.300 anime nel cuore bruciato della Spagna. Un pugno di sabbia e mattoni gialli buttati tutti insieme sulla cima di una collina al centro della grande piana catalana. Come un gesto d’ira veemente, uno scatto di rabbia contro una natura brulla e desaturata, friabile come la polvere che si perde fra le dita ogni volta che tocchi terra. Qui le case sono arroccate l’una sull’altra e i vicoli sono stretti e colmi d’ombra, immobili nel silenzio e nel torrido alito del vento secco che arriva dal mare. Da lontano, il grande campanile ottagonale tocca le ore con imperturbabile severità, lasciando che il rintocco pigro delle campane bagni tutta la valle.
Da Cervera in avanti la vita di Marc Marquez è una pellicola di nuova concezione, un film post duemila e di tarantiniana memoria montato velocissimo, dalla trama lineare e rettilinea, colmo di colori e gonfio di tanti, persino troppi, momenti inebrianti. Come tutto il nuovo filone del cinema, la parabola di Marc è esaltante e fulminea, perfetta in ogni dettaglio eppure curva sotto un’unica, estenuante domanda: “riuscirà a mantenere le aspettative?”.
Già, le aspettative. E’ buffo, in un certo senso, come esse siano ne più ne meno un prodotto moderno, uno scomodo e pesante copricapo gettato addosso a chi, giovane e di successo, deve comunque portare un peso per tutto questo prematuro riconoscimento. Ad oggi le aspettative hanno le forme minacciose ed il sapore acre di un debito da saldare, di una cambiale in scadenza, come se qualcuno ce le avesse consegnate senza che le chiedessimo ed ora fosse pronto a venire a batter cassa.
Il Cabroncito pare oggi non soffrire questo fardello. Troppo giovane, troppo sorridente, troppo amato per non fraintendere ancora lo sguardo sognante di chi lo circonda. Dopo sole quattro gare nel campionato a due ruote più prestigioso del mondo in sella alla moto più desiderata del paddock, Marquez è secondo nella classifica mondiale ed ha già messo in cascina una vittoria, due pole position e una spicciolata di podi conquistati senza troppe cortesie ai danni di chi nella categoria sguazzava da un bel po’. Ma c’è di più.
Quello che forse sconvolge di più del ragazzo di Cervera è infatti la fulminea capacità di apprendimento, quasi un adattamento fisiologico ed immediato al mezzo, alle condizioni, alla categoria ed al contesto. Stupisce la velocità di mutamento di condizione, quel processo che conduce dalla difficoltà alla comprensione e dalla reazione all’eccellenza della prestazione. Lo si è visto a Le Mans, prima gara bagnata del catalano, in cui Marquez ha imparato in otto giri otto come si guida sul bagnato una MotoGP: è partito come chi sta in groppa ad una saponetta ed è arrivato terzo, girando un secondo più veloce di tutti.
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