Abbiamo aspettato un attimo prima di parlare del ritiro di Ben Spies. Volevamo vedere che succedeva. Dal comunicato ufficiale Ducati sono passati 4 giorni e certamente se qualcuno si aspettava fanfare e titoli importanti è rimasto deluso. L’abbandono dell’americano, un ragazzo che ha vinto un titolo Superbike e tre campionati AMA, è finito nel silenzio più totale.
Spies lascia il motociclismo, almeno quello super professionistico, in sordina, quasi in punta di piedi: di lui, del suo “call it a day” hanno parlato solo i magazine specializzati, i commentatori più accaniti. E’ un epilogo tanto adatto per l’ultima parte di carriera del texano quanto assolutamente inappropriato per come invece le cose erano iniziate.
Spies lascia sia perchè ha le spalle in briciole sia perchè ha i nervi in pezzi. Le prime sono il risultato di cadute fragorose e cure sommarie, i secondi sono il risultato di un bagaglio di aspettative troppo pesanti per un ragazzo non sufficientemente robusto. Le fratture si possono curare, ma non esistono viti o placche d’acciaio per morale, cuore e convinzione.
Si faccia chiarezza sin da subito: il texano era -e forse da qualche parte è- un grande pilota di motociclette. Su questo non si discute e chiunque lo abbia visto in uno dei suoi giorni buoni può confermare che Ben era un talento straordinario, un pilota veloce di natura, dotato di uno stile particolarissimo e di una corporatura unica che gli rendeva possibile un controllo della moto violento, sfacciato e possessivo. A questa strabordante fisicità, tuttavia, l’americano sapeva comunque dare un velo di eleganza e di leggiadria, disegnando traiettorie pulite e curve rotondissime. Non è un caso che Yamaha lo ritenesse un pilota adatto a quella M1 che Lorenzo stava ridefinendo come strumento geometrico, di innata morbidezza se confrontata con la potenza rombante e furiosa delle Honda. Con queste caratteristiche Spies aveva vinto 3 campionati AMA (la Superbike americana) e un titolo World Superbike al suo primo tentativo. Mica noccioline.
A Ben è mancato il centesimo per fare l’euro, il passo per diventare campione dopo essere stato ottimo pilota. La MotoGP l’ha ucciso, per quanto sia brutto da dire, logorandolo nella sua parte peggiore, quella più debole, quella caratteriale. Piaccia o non piaccia stare nel paddock del massimo campionato delle due ruote al mondo non è faccenda semplice da sbrigare, specie in sella ad una delle due moto che devono vincere per forza, specie se il creatore non ci ha dotati di attributi e tranquillità nei nostri mezzi. Girano soldi veri, le pacche sulle spalle sono meno amichevoli, i sorrisi un po’ meno tirati, i fogli con i tempi appesi come lame dentro i box. E’ un mondo diverso da qualsiasi altro ambiente motociclistico: non è un ritrovo di amiconi e vecchi compagni, non bastano i parenti per parlare in hospitality con i Team Manager.
Non è detto che Spies avrebbe vinto qualcosa, avesse avuto un carattere diverso, ma è molto probabile che il suo esilio non sarebbe stato così duro e ostile. Avrebbe potuto essere un eccellente pilota, forse non un vincente ma comunque sempre qualcuno da cui guardarsi. Invece Ben è scivolato sul secondo anno di Yamaha e poi nella ectoplasmica esperienza Ducati Pramac, su cui ha corso forse tre ore in tutto.
Quando è stato ora di dare l’addio, è stato come buttare via un giocattolo vecchio cui poi non eravamo stati neppure troppo affezionati: senza malinconia.
Come detto, non è per le spalle che Texas Terror si ritira, ma perchè non è riuscito a convivere con un ambiente molto, troppo competitivo che se lo è mangiato vivo, spolpandolo dall’interno. Fosse stato di un’altra pasta, avrebbe curato le fratture e corso sul dolore fino a quando non fosse arrivato l’inverno come hanno fatto tutti i suoi colleghi più blasonati, da Vale a Stoner, da Lorenzo a Marquez quest’anno.
Non è una critica, questa, anzi, solo una spiegazione. E un monito, per ricordare e per ricordarci che stiamo sempre parlando di ragazzi di vent’anni sopra motociclette da 330 all’ora, che sotto la tuta e il casco hanno un cuore ed una testa che non sempre si trovano d’accordo.
Ben tornerà nel suo Diner in Texas, fra hamburger, amici e pomeriggi assolati e senza motori. Non penso tutto questo gli mancherà.
Emanuele Venturoli
RTR Sports Marketing
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