Fermi al semaforo fra Figueroa e West 3rd è difficile rendersi conto dell’universo che scivola via. Lo specchietto retrovisore della macchina riflette i grattacieli di Downtown LA, mentre vero sinistra la 110 e la 101 vomitano il traffico che va verso le colline, lo stadio dei Dodgers, Hollywood, Echo Park e Korea Town. Tanti mondi, tutti uguali eppure così diversi, che rotolano lì davanti, riflettendosi nelle grandi vetrate a specchio dell’LA Downtown Hotel. Difficile, da qui, farsene una ragione. O pensare che, dentro quelle vetrate, una stella si stia spegnendo. Chissà che rumore fa, in mezzo al traffico, un astro che smette di bruciare?
Difficile, laddove non praticamente impossibile, non innamorarsi negli ultimi 30 anni o poco meno di Marija Jur’evna Šarapova, al secolo Maria Sharapova. Più di una campionessa, più di una celebrità, più di un volto, più di un’icona, la Sharapova ha incarnato senza mezzi termini alcuni l’ossimoro matematico in cui la somma corrisponde a più dell’addizione degli addendi.
Per quanti lavorano e hanno lavorato nel marketing sportivo, Maria è stata per diversi anni un’ossessione febbrile. Mentre le sue gesta sul rettangolo si rincorrevano su ogni notiziario e quotidiano sportivo del globo, il suo volto era su ogni copertina, su ogni cartellone, in ogni commercial, a reggere il nome e il logo dei più stellari marchi del firmamento del business mondiale.
Le pure cifre, i cold hard numbers, non possono neppure lontanamente dare una misura della caratura del diamante più lucente dello sport con la racchetta, ma almeno offrono un ordine di grandezza del personaggio. La Sharapova è da 11 anni l’atleta più ricca al mondo, con un patrimonio di circa 200 Milioni di Dollari, proprietaria di circa una dozzina di brand (fra cui le caramelle Sugarpova) ed ha endorsement con alcuni dei principali gruppi industriali, fra cui, solo per citarne alcuni, Nike, Porsche, Motorola, Land Rover, Canon, Tiffany, Tag Heur e Gatorade. Ribadisco, solo alcuni.
Se per puro caso qualcuno di voi stesse per azzardare un paragone con altri sportivi attualmente in attività, l’invito è quello di non perdere tempo. L’unico equilibrio veramente possibile, in termini di dimensioni, è Michael Jordan.
Pure sull’orrendo tappeto del LA Downtown, pure in una giornata come questa, Maria riuscirebbe a fregarci tutti. Quando ammette la positività al test dell’antidoping condotto su di lei il 26 gennaio di quest’anno dopo la sconfitta con la Williams, lo fa con una grazia e con una signorilità che sono proprie soltanto delle grandi regine del palcoscenico. Anche pochi istanti prima di essere ghigliottinate.
Capelli sciolti, abito scuro, trucco leggero e un inglese impeccabile, Maria dice di avere commesso un errore. Da dieci anni assume un farmaco, il meldonium, che dal primo di gennaio è sulla lista nera della Wada, l’associazione mondiale che regolamenta e disciplina il doping. Il farmaco, prosegue, è inserito in un cocktail medico che le viene prescritto dal 2006 come cura a un principio di diabete ereditario, una carenza di magnesio e a frequenti cali di salute nel corso della stagione. Eppure la Sharapova non cerca scuse e questa non è una confessione, né un linciaggio mediatico. Maria sta raccontando una storia, una storia qualunque che non pare esser neppure la sua, da tanto il copione è pulito, l’eloquio impeccabile, il ragionamento filante. Dice che accetterà le conseguenze, che non smetterà di avere amore per il gioco del tennis, e che la colpa è sua, tutta sua e null’altro che sua. E conclude dicendo che chi si aspettava un suo ritiro dal tennis dovrà attendere, perché non è da uno scalcagnato Hotel di Downtown che saluterà il suo pubblico.
Quando scorrono i titoli di coda, Maria ci ha fregati di nuovo. Come mai non siamo feroci? Come mai non ci sentiamo deprivati? Come mai gli stessi che hanno annientato in pochi minuti Lance Armstrong qualche anno fa ora non sono in piazza a chieder la testa e il palmares di questa donna? Dove sono le forche? Improvvisamente, siamo possibilisti. E se fosse un equivoco? Ci dovrà pur essere una spiegazione.
Come sempre tuttavia, quando qualcuno racconta una grande storia, si finisce per concentrarsi sulla poesia dei dettagli e dei personaggi, e poco sul logico dipanarsi degli eventi. Ed è qui, che l’astro di Maria inizia ad avere un cuore sempre più freddo.
Il Meldonium, che è entrato nella lista nera della WADA dal 1 gennaio, era sotto osservazione da qualche decina di mesi proprio a causa delle sue proprietà anabolizzanti (e proprio questa è la categoria in cui è entrato nel registro, al numero 4, fra gli ormoni e i modulatori metabolici) e del largo uso che, specie nei paesi dell’Est Europa, ne veniva fatto dagli atleti. La Wada ha infatti scoperto che negli ultimi 18 mesi circa circa, su un campione di più di 8.000 atleti, più del 2,2% degli atleti aveva tracce di Meldonium nel sangue. Una percentuale altissima, per un farmaco che nasce come immunomodulatore per il trattamento di malattie neurogenerative.
La realtà vuole che la molecola originale del meldonium nasca negli anni 70 in un laboratorio lettone, grazie al lavoro di un equipe di ricercatori che stava compiendo analisi ormonali sulla crescita degli animali da allevamento. Da allora la molecola, che viene prodotta unicamente in Lettonia e commercializzata con il nome di Mildronate per un fatturato medio di oltre cento milioni di dollari all’anno, è largamente usata per le sue proprietà sulle prestazioni sportive: diminuisce i livelli di acido lattico e urea nel sangue, aumenta il livelli di glicogeno, le capacità aerobiche e migliora i parametri funzionali dell’attività cardiaca. Insomma, con il Meldonium si recupera più in fretta, si accusa meno la fatica e si possono fare sforzi prolungati per più tempo. Tendenzialmente non male per qualcuno che vive con uno sport faticosissimo e ricco di impegni in tutto il mondo. Non a caso, e a ragion veduta, il Meldonium è regolare in Russia, nei paesi dell’Est Europa e in qualche stato asiatico, ma vietatissimo alla vendita negli Stati Uniti, per espresso giudizio della FDA.
Tutto questo per dire che la sostanza in questione ha effetti largamente noti da anni e che era palese alla totalità degli operatori del settore che da lì a poco sarebbe entrata nella lista delle sostanze non concesse agli atleti. Già nel dicembre 2015, una ricerca dell’Istituto nazionale della salute degli Stati Uniti e della Libreria Nazionale di Medicina Americana aveva avvertito delle palesi proprietà anabolizzanti della molecola in un articolo dal titolo “Mildronate (Meldonium) in professional sports – monitoring doping control urine samples using hydrophilic interaction liquid chromatography – high resolution/high accuracy mass spectrometry” sostenendo che “In the present study, the existing evidence of Mildronate’s usage in sport, which is arguably not (exclusively) based on medicinal reasons, is corroborated by unequivocal analytical data allowing the estimation of the prevalence and extent of misuse in professional sports”.
Per stessa ammissione di Sharapova, la WADA ha inviato debita comunicazione scritta alla totalità degli atleti professionisti e al loro staff, avvertendoli sull’entrata in vigore delle nuove regolamentazioni da lì a poche settimane, in una email del 2015 che Maria ha dichiarato di “non avere aperto”.
Purtroppo, il sogno si smonta qui e uno degli astri più lucenti del firmamento sportivo si spegne, pur privo del boato che probabilmente era lecito attendersi. Difficile credere infatti che un atleta professionista del calibro di Maria Sharapova, numero 6 mondiale attualmente del ranking del tennis femminile, manchi di leggere una circolare della più temuta inquisizione mondiale sul doping. Così come è difficile credere che la stessa WADA invii banalmente una mail qualunque ad una casella di posta elettronica, e si limiti a questo genere di avvertenze sapendo che sulla giostra ci sono carriere illustri e centinaia di milioni di dollari che ballano. Difficile ora credere alle spiegazioni sul perché la tennista non abbia partecipato al torneo di Indian Wells, accusando problemi fisici. Difficile, infine, credere che Maria e il suo staff non sapessero, e che il Mea Culpa di oggi non sia un mostrare la pagliuzza per nascondere in realtà il bastone, sperando nella clemenza popolare. Intanto, Nike, Porsche e Tag Heur hanno già abbandonato Maria, proprio mentre la ITF comunicava un minimo di due anni di squalifica per la tennista russa.
Ma è giusto così, e non ci possono essere figli e figliastri, nella lotta al doping. E poco importa se a cadere siano le stelle più luminose o più insignificanti dei puntini.
Addio Maria, c’eravamo tanto amati.
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