Ha due velocità, questo Campionato del Mondo di Formula 1. Senza vie di mezzo, senza grigi fra il bianco e il nero. Come il cambio sulla bicicletta di un bambino, come un interruttore irrimediabilmente accesso o spento.
La prima velocità è quella di Sebastian Vettel. 8 vittorie stagionali, 77 lunghezze di vantaggio in classifica, 26 anni e -fra poco- 4 titolo mondiali. Numeri che non danno neppure la misura dello strapotere del tedesco, la dimensione dell’ombra che lui e la Red Bull proiettano su tutto il paddock. Piaccia o non piaccia, Vettel sta per entrare nella leggenda di questo sport polverizzando weekend dopo weekend qualsiasi speranza altrui.
Dalla pole al giro veloce, dalla vittoria in gara alle ripartenze fulminee dopo la Safety Car, il numero uno del campionato sta semplicemente correndo un altro campionato, senza avversari.
In Corea non è stato diverso e forse il segno più evidente di questo dominio è da ricercarsi negli ultimi due giri, in cui Vettel ha fatto registrare il crono più veloce di tutta la gara, come a dire “faccio quello che voglio, quando voglio”.
A questo punto poco importano i dubbi sulla legittimità o meno della sua vettura: finchè qualcuno non troverà evidenze concrete di eventuali irregolarità, la RB9 sarà semplicemente una macchina straordinaria e geniale, senza punti deboli.
La seconda velocità è quella del resto del gruppo. Un gruppo multiforme, ricco di cameo importanti e di protagonisti inaspettati. Un gruppo variopinto, tutt’altro che prevedibile, battagliero come se ne erano visti pochi. Non ci fosse Sebastian Vettel, questo sarebbe forse uno dei mondiali più belli di sempre per colpi di scena, rimonte, sorpassi e grinta.
Il GP di ieri, in questo senso, è la fotografia perfetta di un “secondo mondiale” combattutissimo e serrato, con il Box Lotus ad incitare Grosjean alla rimonta sul compagno di squadra, con Alonso mangiato in mezzo al gruppo, con Hamilton e Rosberg alle prese con frecce d’argento talvolta spuntate, talvolta velocissime.
A differenza della Red Bull, Ferrari, Mercedes, Lotus e compagnia sono macchine imperfette per definizione: che soffrono sulle gomme, sul cambio, sull’aerodinamica e sulle velocità di punta e che, Gran Premio dopo Gran Premio si scambiano posizioni e destino in un balletto che appassiona e lega al divano.
In questo bailamme c’è quindi tanto spazio per gli attori non protagonisti. Ieri era il turno di Nico Hulkenberg, autore di un gara maiuscola, festante come un bambino al traguardo e con avversari molto illustri negli specchietti.
Questa seconda velocità è la velocità dell’imperfezione, delle due safety car, delle Jeep dei pompieri che entrano in pista senza preavviso, delle macchine a fuoco, dei sorpassi all’ultimo centimetro. E’ la velocità dell’incredulità, come quella di Lewis Hamilton che, spossato dalla frustrazione di non riuscire a superare la Sauber di Hulkenberg, chiede al suo muretto “ragazzi, qualcuno ha qualche suggerimento?”.
Storia di un mondiale a due velocità e con altrettanti destini. Il primo, già scritto, vedrà Sebastian Vettel incidere il suo nome per la quarta volta consecutiva nel registro dei Campioni. L’altro, quello per cui ancora ci alziamo alle 5 di mattina a vedere un Gran Premio, è quello sfumato dei cagnacci all’inseguimento.
Secondi, certo, ma per questo non sazi
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