C’è una parola che oggi domina ogni paddock, dalle prove libere del mondiale rally ai box di un campionato nazionale: iperspecializzazione. Atleti “costruiti” per un solo gesto, ingegneri “tarati” su un solo regolamento, carriere pensate come tunnel. Eppure, ogni tanto, qualcuno prova ad aprire una porta laterale. Kalle Rovanperä è uno di questi: campione WRC e, nel mezzo, drifting e pista; ora addirittura un cambio di rotta annunciato verso nuove sfide: in Super Formula nel 2026 con l’obiettivo della F1.
Se questo vi suona moderno, quasi “da social”, vale la pena ricordare che nel motociclismo esiste un precedente che sembra scritto apposta per questa discussione: Jean-Michel Bayle.
Jean-Michel Bayle e Kalle Rovanperä: l’arte di trasformarsi con successo
Bayle non è stato un “talento polivalente” per modo di dire. È stato campione del mondo motocross 125 nel 1988 e 250 nel 1989, prima di attraversare l’Atlantico e firmare un anno che, ancora oggi, nel fuoristrada USA viene raccontato come un’anomalia statistica: nel 1991 vinse AMA Supercross 250, AMA National 250 Motocross e AMA National 500 Motocross, diventando l’unico a completare quel tris nella stessa stagione.
Qui sta il punto: non era solo “veloce”, era dominante. E quando domini, hai due scelte: difendere il regno o metterti in discussione.
Bayle scelse la seconda. Passò dall’off-road alla pista: nel 1994 corse nel Mondiale 250 su Aprilia e nel 1996 salì in 500 con il team Kenny Roberts-Yamaha. Non vinse gare nel Motomondiale, ma si tolse lo sfizio (che non è affatto uno sfizio) di fare pole position e di essere credibile in un ambiente dove l’errore non perdona e l’esperienza vale anni.
E quando qualcuno liquida quel passaggio come “capriccio”, conviene ricordare che nel 2002 Bayle vinse anche nel mondo endurance, conquistando Bol d’Or e 24 Ore di Le Mans moto (in squadra), prima che gli infortuni lo accompagnassero verso il ritiro.
In altre parole: non un esperimento da weekend, ma un progetto di identità sportiva.
Rovanperä, per molti aspetti, parla la stessa lingua. Ha riscritto le cronache del WRC diventando il più giovane vincitore di un rally mondiale (2021) e il più giovane campione del mondo (2022).
Poi, nel 2024, ha scelto deliberatamente una stagione a programma ridotto per “ricaricarsi” e aprire spazio ad altre esperienze: drifting e pista, tra cui la Porsche Carrera Cup Benelux con vittorie a Imola e al Red Bull Ring.
Sul drifting, non parliamo di un hobby da parcheggio: in Formula Drift Japan, al debutto, ha vinto a Ebisu con una GR Corolla da drift preparata per l’occasione; e la cosa interessante non è solo il risultato, ma la naturalezza con cui ha reso “competitiva” una disciplina che vive di giudizio, spettacolo e precisione millimetrica.
Il parallelo tra Bayle e Rovanperä non è “fuoristrada contro rally”, sarebbe troppo facile. Il vero parallelo è un altro: la gestione del rischio professionale.
Bayle ha lasciato il terreno dove era re per andare a imparare un alfabeto diverso, pieno di trappole (frenata, traiettoria, feeling sull’anteriore a velocità da circuito).
Rovanperä, nel pieno della sua forza, ha scelto di non essere prigioniero del suo stesso palmarès: ha messo in agenda il tempo necessario per “spostare” abilità da un contesto all’altro, e oggi Toyota stessa racconta apertamente la sua intenzione di cambiare sfida dal 2026, con supporto verso programmi su pista (Super Formula, secondo quanto riportato).
In un’era di iperspecializzazione è ancora possibile fare quello che Rovanperä sta tentando con successo?
La mia risposta è sì, ma con una clausola grossa come un regolamento FIA: è possibile solo se il cambio di disciplina è progettato come un progetto industriale, non come una fuga romantica.
Oggi il livello medio è talmente alto che l’improvvisazione dura quanto un set di gomme morbide. Però è anche vero che le strutture moderne offrono strumenti che Bayle non aveva: simulatori avanzati, programmi fisici “su misura”, ingegneria dei dati, coaching mentale continuo. Questo riduce il tempo di adattamento, non lo elimina. Per questo credo che Rovanperä abbia scelto bene: drifting e pista non sono “un altro pianeta”, sono pianeti vicini. Cambiano riferimenti e obiettivi, ma il vocabolario di base, gestione dell’aderenza, sensibilità di carico, coraggio pulito, è trasferibile.
I grandi esempi del passato, in effetti, dicono la stessa cosa: la polivalenza riesce quando l’atleta porta con sé una competenza madre. John Surtees è il caso definitivo: campione del mondo su due ruote e poi campione del mondo di Formula 1, ancora oggi l’unico a riuscirci.
Nel rally-raid, Hubert Auriol vinse la Dakar sia in moto (1981, 1983) sia in auto (1992), attraversando non solo un mezzo diverso ma una filosofia diversa di gara.
In tempi recenti, Fernando Alonso è l’emblema del pilota moderno che prova ad allargare la carriera: Le Mans, WEC, Indy come orizzonte della “Triple Crown”, in un’epoca dove la specializzazione è la norma.
E poi c’è Sébastien Loeb, che ha dimostrato per anni che il talento “da grip variabile” può essere spostato: dal WRC a Pikes Peak, al rally-raid, al rallycross, con risultati che non sono folklore.
Se devo chiudere con un’opinione netta: l’iperspecializzazione non ha cancellato i “Bayle” e i “Rovanperä”; li ha semplicemente resi più rari e, soprattutto, più consapevoli. Oggi la polivalenza non nasce dall’istinto di cambiare aria, ma dalla lucidità di costruire una carriera lunga in un mondo che consuma campioni in fretta. Bayle lo fece prima che diventasse una narrativa. Rovanperä lo sta facendo mentre tutti lo guardano, con i cronometri in mano e i social pronti a sentenziare.
E forse è proprio questo il dettaglio più interessante: in un’epoca che ti vuole “solo una cosa”, la vera modernità è avere il coraggio di essere, ancora, un pilota completo.