Mi permetto di riaprire un capitolo che avevo già sfiorato qualche tempo fa. Vexata quaestio, a dire il vero. Il tema è quello dell’età dei piloti della F1, sempre più giovani e -probabilmente- sempre meno pronti.
Capitò di parlarne, sempre così tra amici, quando il venticinquenne Alguersuari annunciò il ritiro dalle corse nel 2015, definitivamente prosciugato da una carriera troppo veloce e senza tappe. Ricapitò di parlarne all’esordio del neppur patentato Verstappen nella massima formula, dopo una mezza dozzina di disastri causati dal suddetto, incapace apparentemente di arrendersi alle leggi della fisica e al principio dell’impenetrabilità dei corpi. Infine, ri-ricapitò di parlarne allo sbarco dell’appena maggiorenne Lance Stroll sul pianeta Formula 1, al quale fecero seguito alcuni ragionamenti sui danari di papà Lawrence e sulle capacità di guida del prode discendente.
Questione di età ed esperienza
L’annuncio -nelle scorse ore- di Antonio Giovinazzi come pilota ufficiale del Team Sauber Alfa Romeo al fianco del Grande Vecchio Kimi Raikkonen ha fatto alzare più di un sopracciglio ai benpensanti. Il dubbio, uscendo di parafrasi, è che Antonio sia arrivato già troppo vecchio al primo sedile in F1. O almeno, non abbastanza giovane.
Ora, è evidente che sui concetti di gioventù e vecchiaia ci può essere giurisprudenza. Mozart scrisse la Sinfonia in Mi Bemolle K16 a 8 anni, mentre Bukowski pubblicò il suo primo romanzo “Post Office” a 52. Fleming si accorse di avere scoperto la penicillina solo da quarantasettenne, mentre Dalì dipinse il suo “Landscape of Figueres” a 10 anni. In ogni caso, sia quel che sia, dove si collochi il concetto di maturità può sicuramente essere questione da dibattere, ma bollare un pilota di F1 di 25 anni come “non più giovane” forse è un’esagerazione. O no?
Guardando la possibile entry-list del campionato di Formula 1 2019, e facendo le debite speculazioni sui sedili liberi e sulle posizioni vacanti, si scopre che l’età media dei driver della massima Formula nel momento in cui si scrive è 26. Dieci sono i piloti al di sotto dei 25 anni, di cui quattro ventenni o poco meno. Solo 5 gli over trentenni al volante, ma non è inutile segnalare che proprio in questa categoria ricadono i top 3 del mondiale al momento in cui si scrive, ovvero Hamilton, Vettel e Raikkonen. A fini puramente statistici, è importante tenere in conto che in questa lista figurano ancora due anzianotti come Hartley (29 il prossimo anno) e Grosejan (32) i cui destini non sono ad ora stati chiariti.
L’età nello sport è quasi sempre un fattore importante
Insomma sì. Giovinazzi entra ufficialmente in Formula 1 già oltre la media d’età della categoria. In un certo senso, se l’aritmetica non è opinabile, arriva già vecchio. Diversamente giovane, mettiamola così. Già vecchio in un campionato in cui piloti 4-5 anni più giovani di lui hanno almeno due o tre anni di esperienza, e in cui i coetanei sono praticamente considerati veterani. È legittimo, a questo punto, riproporre l’annosa domanda sulla anagrafe dell’uovo e della gallina e domandarsi: è Giovinazzi ad essere troppo vecchio per questo sport o questo sport ad essere diventato, per farla breve, troppo giovane?
Senza ombra di dubbio alcuno l’età è un fattore estremamente rilevante in ogni atleta. Lo sportivo, per definizione stessa, fa del corpo e della prestanza fisica il suo principale alleato nella competizione. Soleva dire Bill Knight, l’uomo che fondò il marchio Nike, che “se hai un corpo sei un atleta”. Questo è ovviamente falso, ed è manifestamente dimostrato dall’innalzamento del livello della performance in tutte le discipline grazie ad un approccio moderno alla nutrizione, all’allenamento e alla lettura dei dati. Tutti hanno un corpo, pochissimi lo usano da atleti. In questo, ogni giovane è meglio di un vecchio. È vero nel calcio, nell’atletica leggera, e anche nella Formula 1. Un giovane recupera meglio dagli sforzi, è più reattivo, più facile da allenare ha maggiori margini di miglioramento.
Tuttavia, benché assolutamente centrale, il lato atletico dello sportivo non è l’unico. Carattere, esperienza, nervi saldi, capacità di concentrazione sono anch’essi alleati fondamentali, specie in sport come l’automobilismo che richiedono una concentrazione elevatissima per lunghi periodi e un equilibrio emotivo di una certa caratura. Correre in macchina a trecento all’ora per due ore consecutive su una pista in cui contemporaneamente impazzano altri ventuno colleghi affamati di risultati è qualcosa di estremamente provante per la psiche, oltre che per il corpo. Altresì, cambiare nazione ogni 10 giorni per nove mesi all’anno, nel tentativo di riproporre la stessa routine a Melbourne, Monza, Baku, Spa, Singapore, Abu Dhabi, Montreal necessita di un approccio molto particolare alla vita, ai valori, alla stabilità. In questo non è detto che un giovane sia meglio di un vecchio, ed è indispensabile ricordare che dietro al volante, oltre che ad un pilota, c’è una persona.
Un percorso fatto di tappe
È opinione di chi scrive che la Formula 1 debba essere un punto di arrivo, e non di transito, per un pilota. La massima serie delle ruote scoperte sta invece divenendo un setaccio fino al quale si passano decine di driver che poi vengono ricollocati nel DTM, in Indycar, in Formula E. Piloti di venti-ventuno anni che vengono buttati per un anno nel frullatore, etichettati come “the new sensation”, e poi vengono gettati via, esausti come l’olio e incapaci di gestire la pressione. I nomi, negli anni recenti sono decine, solo che tendiamo a dimenticarli. Da Vergne a Wehrlein, da Buemi a Bourdais e via discorrendo.
La domanda è, senza malizia alcuna, ha senso prendere un ragazzo di 17 anni, metterlo sulla macchina più veloce del mondo e darsi un anno per capire se è un campione? È giusto far entrare un pilota in Formula 1 a 25 anni e preoccuparsi perchè è vecchio? È corretto utilizzare la Formula 1 non come il campionato dei più forti piloti del mondo in attività, ma come una master in automobilismo in cui operare un darwinismo di piloti poco più che ventenni? Ovviamente la risposta è personale ed opinabile, ma è lecito chiedersi se Scott Dixon non sia meglio di Sirotkin, se Marco Wittmann non sia meglio di Ericcsson o Josè Maria Lopez non sia un driver più solido di Vandoorne.
La necessità di personaggi che lasciano il segno
Una cosa, invece, è certa e -questa sì- poco opinabile. Alla Formula 1 di oggi mancano i personaggi, i caratteri. Intendiamoci, non alla Senna, alla Schumacher, alla Hunt: di quelli ne nasce un ogni cento anni e buona grazia se lo si incontra. Ma semplicemente uomini forti, solidi, anche un po’ arroganti, ma certamente intensi. Aprendo le entries di un campionato a caso, quello del 1989 si capisce bene di cosa stia parlando. Senna, Prost, Alboreto, Alesi, Herbert, Patrese, Brundle, Arnoux, Nannini, Piquet. Uomini robusti, prima ancora che piloti forti: senza politica, senza piagnistei, senza crolli psicologici, senza crisi esistenziali. E col cambio a destra.
È possibile che il processo di abbassamento dell’età d’accesso alle massime categorie sia giunto al suo grado massimo, o abbia raggiunto il “treshold”, come dice chi ha studiato. Allo stesso modo è possibile che queste considerazioni siano il frutto di un costante revisionismo che tende sempre a tarare il passato con il presente, dimenticando che le unità di misura non sono le medesime. Oppure, salomonicamente, è possibile che la verità stia nel mezzo e che ogni epoca abbia grandi campioni -che tutti ricordano- e grandi brocchi, speditamente dimenticati.
O forse, da vecchio sclerotico quale sto inevitabilmente dimenticando, è possibile che io stia già semplicemente sventolando l’indice per aria urlando “Ai miei tempi…” a metà del pranzo domenicale con i parenti.