In Marketing Sportivo

Nel momento in cui si scrivono queste righe, l’Italia è in lockdown da 20 giorni esatti a causa della pandemia da Coronavirus. Dalle fabbriche alle scuole, dalle università agli uffici, tutto è chiuso, gli eventi cancellati, le manifestazioni di qualsiasi tipo proibite.

È un periodo senza precedenti non solo nella storia del nostro paese, ma in quella internazionale: se è vero che già nelle guerre mondiali il pianeta aveva vissuto un simile stato di emergenza, è altresì vero che le condizioni di contesto sono profondamente differenti.

La comunicazione ci salverà

Chiusi nelle case ci siamo immediatamente gettati sui due grandi mezzi di comunicazione della nostra epoca, la televisione e Internet. Se il tubo catodico era presente (anche se con minor capillarità) anche durante l’ultimo conflitto mondiale, Internet rappresenta la grande rivoluzione di questa incredibile situazione. Il Covid-19 è la prima emergenza mondiale “digitalizzata”.

Fra le industrie che con maggiore rapidità e maggiore energia si sono immediatamente riversate sulla rete, inondando le principali piattaforme di contenuti, c’è senza ombra di dubbio lo sport. Squadre, atleti e campionati, certo, ma anche giornalisti, produttori di articoli sportivi, commentatori, manager hanno d’improvviso riempito le colonne dei giornali, le bacheche virtuali e le timeline dei social nel tentativo di compensare l’assenza dello sport giocato.

L’entertainer per eccellenza della modernità, forte anche della presenza di uffici di comunicazione e di social media management molto strutturati, ha aggredito il mondo della comunicazione (sopratutto online) in maniera onesta e talvolta fin troppo garibaldina, alternando podcast, concorsi, aperitivi online, video dal passato e persino disegni da colorare.

Un po’ per paura, un po’ per esercizio di esorcizzazione, un po’ per necessità, spesso tutte queste attività sono state condotte senza un vero piano strategico. Di nuovo, ci troviamo davanti ad un episodio che non conosce precedenti: per molti, se non per tutti, questo è l’anno zero. Con una sola speranza: la comunicazione ci salverà. È ora necessario vedere se questo assunto è obbligatoriamente vero e come meglio direzionare gli sforzi.

Lo sport, l’ammissione, la crisi

Prima di lanciarsi in chissà quale disamina o commento, è necessario iscrivere nella roccia un assunto, con grande serietà e con grande serenità. Il mondo dello sport, a causa del Coronavirus, è entrato repentinamente in un momento di grande e profonda crisi, probabilmente la peggiore nella storia dello sport internazionale.

È una crisi tutt’altro che concettuale: è fattiva, tangibile, assolutamente concreta. Per tutti gli attori del mondo dello sport (e qui torna utilissimo il concetto di “prodotto sportivo” di Hardy e Mullin, che rappresentava proprio la totalità delle azioni e delle realtà attorno allo sport) questa crisi assume facce e forme diverse che però hanno un minimo comune denominatore, ovvero le ripercussioni economiche, sull’impiego e sull’esistenza futura.

Non servono grandi costrutti teorici per comprendere la situazione. Se non si gioca (o se non ci corre o se insomma non si pratica lo sport) vengono a mancare tutte le “raison d’être” per il sostentamento di un settore. Se servisse un dato per inquadrare a livello di proporzioni la questione, sia sufficiente qui ricordare che il calcio è la terza industria del sistema Italia

Se non si gioca non si vendono biglietti, merchandising, non ci sono sponsor, non servono scarpe per l’attività sportiva o abbonamenti per la palestra. Non servono circuiti, o manutenzione di stadi, o agenzie di comunicazione sportiva o agenzie di sponsorizzazione. I giornalisti sportivi non hanno di che parlare, i fotografi nulla da scattare, le televisioni nulla da trasmettere e i tecnici che vi lavorano nulla da riprendere, da montare o da produrre. L’elenco è insomma, potenzialmente infinito.

La comunicazione di crisi nello sport e nella vita

Gli studiosi di comunicazione pubblica conoscono bene il concetto di comunicazione di crisi, ovvero tutto quell’insieme di strategie e tattiche da mettere in campo quando succede qualcosa di inaspettato e che mette a serio repentaglio la reputazione di un’azienda o di un soggetto. Diceva Warren Buffet, celebre imprenditore statunitense, che “ci vogliono venti anni per costruire la reputazione di un’azienda e bastano cinque minuti per distruggerla”.

Secondo la teoria, la crisi si compone di sette differenti strati: allarme, paura, impatto, bilancio, salvataggio, rimedio, ripristino. Queste divisioni sono tutt’altro che teoriche e anche nel mondo sportivo questi passaggi stanno ahimè venendo rispettati in maniera abbastanza ordinata dall’evolversi dei fatti.

C’è stato l’allarme -sta arrivando un virus dalla Cina la cui portata sanitaria è stupefacente-, la paura -se continua così sarà necessario cancellare gli eventi, anche quelli sportivi-, l’impatto -vengono effettivamente cancellati gli eventi sportivi e tutte le manifestazioni.

Si è ora, sempre seguendo la linea teorica, nella fase del bilancio, quella in cui si deve fare il punto sul nuovo mondo e dotarsi degli strumenti per affrontarlo. Seguiranno il salvataggio, ovvero la messa in pratica di azioni per concludere l’emergenza, poi il rimedio e infine il ripristino, ovvero il ritorno ad una situazione ante-emergenza.

Già da tempo in realtà la comunicazione di crisi non è appannaggio unicamente dei gruppi industriali: molte realtà dello sport hanno dovuto attrezzarsi in tal maniera per fare fronte a scandali e brutti chiari di luna, in caso ad esempio di truffe o di doping. È sufficiente dare un’occhiata a come grandi realtà dello sport abbiano affrontato il caso di Lance Armstrong o dell’inflate-gate dei New England Patriots o, più recentemente, della morte di Kobe Bryant.

È dunque bene qui fare chiaro un punto. Se è vero che la prima regola della comunicazione di crisi è quella di essere preparati alla crisi (ipotizzando scenari futuri o valutando possibili punti di debolezza), era impossibile per ciascuno prevedere con sufficiente lungimiranza quello che stava arrivando prima dei fatti di Wuhan in Cina e poi di Codogno in Lombardia. Come a dire: certo, oggi c’è una crisi, ma davvero nessuno l’aveva vista arrivare.

Questo punto, apparentemente banale, è in realtà centrale per dare risposta a molte domande che attanagliano il mondo dello sport, del commento sportivo e della sponsorizzazione sportiva in questi giorni. La verità, infatti, è che a molti quesiti non ci sono risposte proprio poiché nessuno si è mai posto le domande. Quando riparte il campionato? Chi vince se viene sospeso? Sono da pagare gli stipendi se non si gioca? Che parte hanno gli sponsor se non si corre? Sono temi eccellenti destinati però a rimanere senza risposta: la maggior parte dei contatti stipulati ante coronavirus non prevedevano nemmeno una frazione di tutto quello che si è verificato negli ultimi trenta giorni.

Comunicare nel buio e l’ora del debuttante

Probabilmente per l’assenza di linee guida teoriche (ma anche per la già ribadita assurdità della situazione) stiamo assistendo in questi giorni ai più disparati tentativi ed esperimenti di comunicazione. Volendo essere positivi, è certamente un momento di grandissima crescita per il mondo della comunicazione sportiva: i fatti ci hanno costretto a nuove idee con strumenti vecchi, a costruire un prodotto che non c’è e a accompagnare gli utenti in un mondo che ora non è visibile.

Come detto in precedenza, si riparte da zero e non necessariamente la dimensione delle strutture garantisce la bontà del risultato. Piccoli blog di giornalismo sportivo locale conquistano la rete con trovate brillanti, mentre gigantesche property sportive si barcamenano a malapena nella zuppiera di policy e legal che le trattengono. Alcune celebrities ne escono da campioni, mentre altre fanno mezze figure che purtroppo ricorderanno a lungo. Alcuni gruppi mostrano un lato di sé prima sconosciuto, mentre altri porgono a favore di camera un lato non sempre elegante.

Abbiamo assistito, insomma, in queste prime settimane di crisi, ad una comunicazione spesso al buio, che cerca la giusta strada fra la infinita scelta di opzioni possibili lontano dai solchi tradizionali. Tutto nel tentativo più che onesto di essere rilevanti per il proprio pubblico ma anche per i propri investitori.

Ognuno per sè, Dio per tutti

Quale è dunque lo scopo della comunicazione sportiva in questo tempo di crisi? La domanda è banale solo in superficie.

Dopo un primo, e fortunatamente condiviso, momento di partecipazione e coinvolgimento, ora molte strategie comunicative sono ad un bivio. È evidente che attori dello sport diversi comunicano per ragioni e con scopi diversi.

Se prendiamo un produttore di scarpe sportive, al di là della responsabilità sociale, è evidente che il suo scopo sarà quello di trovare un modo per vendere più prodotto possibile. Se prendiamo un emittente televisiva sportiva, possiamo supporre che il suo scopo sia quello di mantenersi il più appetibile possibile per non perdere abbonati. Se riflettiamo su una squadra sportiva, non è illegittimo pensare che questa debba da un lato coccolare i suoi tifosi e dall’altro non perdere il contatto con gli sponsor. Sponsor che, dal canto loro, devono trovare un modo per continuare in maniera positiva a sfruttare la popolarità e la visibilità delle property sportive. Parimenti gli atleti devono mantenersi notiziabili e noti al pubblico per non perdere posizioni sul mercato, sportivo e commerciale.

Non è un’operazione semplice e, al di là dei più nobili propositi, in molti ad oggi stanno domandandosi come avvicinare alla comunicazione di crisi propositi di tipo più pragmatico. In sostanza, come si fa a parlare bene di ciò che sta avvenendo al momento, magari essere vicini alla propria comunità ma nel frattempo cercare di riavviare il volano dell’attività economica?

È bene sgombrare il campo dagli indugi ed evitare facili stigmatizzazioni puritane. Se il mondo dello sport è un intrattenimento verso l’esterno (quindi i tifosi), è un’industria in piena regola verso l’interno, con stipendi da pagare, fornitori in attesa, stagioni da preparare, conti da salvare e via discorrendo.

Opportunità e rischi

Una delle domande più interessanti è  dunque certamente quella che riguarda l’opportunità della comunicazione. Opportunità qui è ovviamente da intendersi nel senso di “essere opportuni”, “non essere percepiti come fuori luogo”. Se internet offre continuamente la possibilità a Team, Atleti e sponsor di portare avanti operazioni dal fine commerciale anche lontano dagli eventi sportivi (come ad esempio attività per massimizzare la visibilità degli sponsor o promozione dei propri shop) è altrettanto vero che il rischio di passare per speculatori è dietro l’angolo. Insomma, la linea fra l’opportunità commerciale e il cattivo gusto è sottilissima.

Chi -come noi- si occupa di sponsor sa bene quanto ad esempio sia importante dare valore ad un programma di sponsorizzazione nel momento in cui le gare non si corrono, le partite non si svolgono e gli eventi vengono cancellati. È facile rivolgersi alla rete nel tentativo, spesso goffo ma onesto, di dare ai partner quello che il virus ha tolto, ovvero la possibilità di finire sotto gli occhi di milioni di spettatori. La tentazione dunque di produrre post e interventi e attività per conto terzi o con inserimenti di prodotti a fini commerciali è tanto comprensibile quanto legittima.

Tuttavia, questa mano tesa verso i propri compagni d’avventura (come noi siamo soliti definire gli sponsor) non può trascendere dalla grave circostanza in cui ci troviamo. Meglio, probabilmente, attendere qualche settimana prima di riprendere con il seppur corretto battage pubblicitario e concentrarsi, nella fase iniziale, sulla comunicazione sociale e di responsabilità.

In futuro, siamo certi che verranno apprezzate di più quelle realtà che avranno saputo fare silenzio su temi puramente commerciali, piuttosto che quelle che, a tutti i costi, hanno cercato di forzare la mano sulla massimizzazione della sponsorship.

È evidentemente un equilibrio molto difficile da trovare, in termini di pesi ed in termini di tempi. Quando si può iniziare a riparlare di sponsorizzazioni, di contratti, di vendita e di opportunità commerciali? E quanto queste attività devono pesare nella totalità comunicativa della giornata o della settimana? E quanto è possibile travestire il lupo da agnellino, mascherando la necessità all’opportunità richiesta dal momento?

La beneficienza, quella vera e quella da PR

Un’operazione che si vede di frequente in questi giorni è quella della comunicazione post-beneficienza.

Chi scrive ha un’opinione a spigoli assolutamente appuntiti sull’argomento: l’eleganza suggerisce che la vera beneficienza si faccia a telecamere spente. Fare un bel gesto e correre immediatamente a metterlo in mostra non è né da galantuomini né da fini comunicatori. Al contrario, quando il volontariato e la beneficienza sono palesemente uno strumento di PR, si corre il rischio di avere risultati opposti a quelli sperati.

Di nuovo, una questione di essere opportuni.

In molti, certamente senza malizia, hanno in questi primi giorni di emergenza sbandierato con toni trionfalistici l’acquisto di questi ventilatori o la fornitura di quelle mascherine, o la donazione a questo o quell’ospedale. Gesti nobili, necessari e utili come l’aria in un momento di emergenza nazionale, non mi si fraitenda. Gesti, tuttavia, che perdono di credibilità quando anticipati dalle compite note stampa degli uffici comunicazione interna.

Il volontariato si compie lontano dai giornalisti, altrimenti nulla di male nel chiamare le public relations per quelle che sono. Tanto meglio, insomma, dare alle cose il proprio nome, e meglio se hanno un buon fine.

Dal reale al virtuale, e viceversa

Proprio nel momento in cui si scrive è appena terminato il primo Stay At Home GP organizzato dal campionato MotoGP sulla piattaforma virtuale del videogioco della massima serie del motociclismo. A partecipare a colpi di Joypad 10 piloti ufficiali: i due fratelli Marquez, Aleix Espargaro, Pecco Bagnaia, Fabio Quartararo, il duo Suzuki Mir e Rins, Leucona, Oliveira e Maverick Vinales.

L’iniziativa, che è stata ripresa in altre forme anche da altre serie sportive come la Formula 1 e la IndyCar, ha molteplici pregi al netto dell’assenza, evidente, dell’adrenalina che può fornire una gara vera.

In primo luogo è strumento di continuità. In assenza delle gare vere e proprie è intelligente da parte di Dorna (rights holder del Campionato) offrire degli spunti per traghettare i tifosi e non solo dalla pausa invernale al momento in cui si potrà ripartire sui tracciati veri e propri.

In secondo luogo, è uno spostamento di focus che può essere di assoluto interesse per i tifosi: i piloti, ripresi nelle loro case e lontani dalla tensione del giorno di gara, posso essere conosciuti sotto una diversa prospettiva. Non è da tutti i giorni vedere il campione del mondo Marquez scherzare dalla sua cucina con il fratello, o Esparagro rincorrere i bambini attorno al divano fra una partita e l’altra.

Infine, ed è lecito citare il tema in questa sede, il gioco virtuale offre un’alternativa alla visibilità generata per gli sponsor che -seppure in formato molto ridotto- possono vedere i loro marchi e i loro colori apparire sulle motociclette virtuali.

È evidente, specie agli amanti di questo tipo di passatempo, che lo streaming di match di videogame non è stato inventato né oggi né dalla MotoGP. Al contrario, piattaforme come Twitch e il successo di famosi gamer e youtuber (assurti a livello di celebrità mondiali) già da anni testimonia l’importanza planetaria assunta dal mondo del gaming.

Tuttavia, quello che interessa in questa fase è l’interscambio (per amore o per forza, si direbbe dalle mie parti) fra lo sport giocato e lo sport videogiocato, in cui gli atleti veri e propri si sfidano su piattaforme digitali. Dal reale si passa al virtuale in attesa che, si spera presto, dal virtuale si torni al reale, sempre con gli stessi protagonisti.

Difficile dire oggi se questo dello Stay At Home Gp possa essere un trend da cavalcare o un esperimento divertente ma da abbandonare. Quello che è certo è che ci saranno altri appuntamenti, cui hanno detto parteciperanno anche alcuni dei Team -come Ducati- oggi non presenti.

Altrettanto certo è che, terminata questa pandemia, il rapporto fra lo sport giocato e lo sport videogiocato non sarà più il medesimo. L’importanza dell’industria del gaming e la crescente attenzione mondiale nei confronti del videogioco impongono agli organizzatori, alle serie, alle leghe e probabilmente anche alle squadre di porre attenzione sull’aspetto videoludico, capace quotidianamente di coinvolgere centinaia di migliaia di giocatori in ogni angolo del mondo.

Chi si stufa prima? Un problema di binge-reading

Un tema che sarà necessario porsi, nei prossimi giorni, è certamente quello relativo alla quantità di comunicazione in arrivo da ogni tipo di attore dell’industria sportiva. Se, come detto, è stata comprensibile la grande corsa in massa alla rete delle reti nei primi giorni della pandemia, ora è necessario domandarsi quanto a lungo sarà opportuno continuare a proporre video degli allenamenti dei propri atleti, throwback a avvenimenti passati, dirette instagram fra questo e quel giocatore e sondaggi sulla livrea preferita di questa o quella vettura di Formula 1.

Non è illegittimo prevedere nell’immediato futuro fenomeni di over-reading e di assuefazione da un simile battage di comunicazione. Anche il tifoso più accanito, che oggi brama per un pezzetto di calcio giocato o per un traverso sulle piste del Mondiale, probabilmente si stuferà di questa aggressione (ovviamente in senso iperbolico e figurato) da comunicazione.

Insomma, come a dire: non si può pensare di rimpiazzare totalmente il fittissimo palinsesto sportivo ante-Coronavirus con un altrettanto fittissimo palinsesto di post su facebook e storie su Instagram.

Il rischio è quello di fare venire meno una delle grandissime forze del mezzo sportivo, ovvero quello di essere un medium (non si intenda in senso stretto) pull anziché push. Tornando al caso della sponsorizzazione sportiva, a noi cara, possiamo dire che essa funziona proprio perché include anziché intrudere: il messaggio pubblicitario è racchiuso all’interno di un avvenimento che lo spettatore desidera guardare e non forzato come nelle modalità “push” della comunicazione.

Bisogna insomma stare attenti a non trasformare lo sport in una pubblicità dello sport, potenzialmente sgradita anche al tifoso più appassionato.

Informare, divertire, distrarre, con attenzione e sincerità

Oggi più che mai, in questo precisissimo momento storico, lo sport deve vestire  con intelligenza i panni dell’entertainer. In momenti durissimi per le vite e le coscienze, il pubblico deve potersi rivolgere allo sport (e alla comunicazione di sport) come ad una valvola di sfogo e un momento di distrazione. Repliche di gare storiche, rubriche di approfondimento, giochi a premi e passatempo, se somministrati con garbo e misura, sono strumenti utili per fare “scollegare il cervello” almeno per un po’ ad una grande quantità di popolazione che è costretta in casa in attesa che l’incubo finisca.

Informare, divertire e distrarre devono essere le principali funzioni da perseguire per chiunque pratichi la comunicazione sportiva poiché non bisogna dimenticare, anche se la tentazione è forte, che il consumatore finale è l’obiettivo principale dello sport in generale. Che si tratti, come già detto, di una macchina da colorare, di un videogioco di pallacanestro, di un allenamento da replicare fra le pareti di casa o di una vecchia replica dei tempi andati, in questo periodo lo sport deve fondamentalmente servire da grande paciere della quotidianità.

Chiaramente, la sfida dei comunicatori di oggi è quello di sapere con intelligenza e opportunità miscelare obiettivi esterni ed obiettivi interni, sapendo anche strizzare l’occhio agli sponsor, agli investitori, ai partner e agli altri attori di questa industria. È un mix tutt’altro che facile, specie dopo un po’ di tempo, quando necessariamente inizieranno a scarseggiare gli argomenti freschi, i temi non battuti e le strade non scontate.

Nuovo mondo antico

Un giorno, speriamo non troppo lontano da qui, questo periodo sarà solo un ricordo. Quando ciò avverrà, forse senza troppe fanfare, il mondo dello sport, della comunicazione sportiva, del marketing sportivo e della sponsorizzazione saranno profondamente cambiati. Come tutti i grandi momenti di cambiamento storico, anche questa emergenza dal nome esotico di Covid-19, avrà segnato un punto di non ritorno per le professionalità, le consapevolezze e le competenze: lo sport non sarà esente da questo tipo di valutazione.

Verosimilmente, questo periodo ci lascerà con grandi vuoti, ma anche con nuove ricchezze e nuovi strumenti. Avremo riscoperto, senza dubbio, un nuovo volto di questo nostro mestiere e di questa nostra industria, che forse oggi per la prima volta vediamo dall’alto, nel suo complesso, con questo strano e condiviso senso di unità.

La speranza, l’auspicio, è che il dopo sia meglio del prima. Che ci si alzi più forti, più coscienziosi e un po’ più saldi gli uni agli altri. Un po’ scossi, forse, ma migliori.

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Emanuele Venturoli
Emanuele Venturoli
Laureato in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica all'Università di Bologna, è da sempre appassionato di marketing, design e sport.
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