In Formula 1, Formula1

La sponsorizzazione sportiva, e specialmente quella nel motorsport, è uno strumento di marketing flessibile e tridimensionale, il cui ruolo negli anni è cambiato profondamente al mutare del mercato, dei consumatori e del regolatorio. Dai primi anni basati sulla pura visibilità ai giorni odierni della dell’espansione della finanza decentralizzata, sponsorship e partnership hanno compiuto un’evoluzione straordinaria. Raccontarla significa raccontare l’evoluzione dello sports marketing nel complesso, ma anche e sopratutto prevederne le traiettorie prossime e il futuro che ci aspetta.

Una delle prima sponsorizzazioni nella storia della Formula 1 risale molto probabilmente al 1968 quando, durante il Gran Premio del Sudafrica, una vettura del team privato Brabham guidata da John Love scende in pista con i colori del marchio di sigarette Gunston. Era una combinazione particolarmente sensata ma allo stesso tempo assai lungimirante. John Love, pilota e proprietario del Team proveniva dalla vicina Rodesia (l’attuale Zimbabwe, parte del Commonwealth Britannico sino al 1979), mentre Gunston produceva e vendeva i propri tabacchi proprio in Sudafrica. Intorno alla pista, diversi manifesti immortalavano il bolide rombante sullo sfondo di un grande pacchetto di sigarette. Il claim, un gioco di parole in rima, recitava Men rate Gunston great. Ovvero, gli uomini trovano fantastiche le Gunston.

Molto è cambiato da quel giorno in Sudafrica. Eppure, ben più di mezzo secolo più tardi, ancora oggi le vetture di Formula 1 sfrecciano sui circuiti di tutto il mondo con le livree colorate nelle tinte degli sponsor e decorate con marchi e loghi di ogni tipo. È una considerazione evidente, ma anche importante poichè ci conduce ad un duplice risultato. Il primo è che la sponsorizzazione sportiva funziona, ed è uno strumento di marketing potente, riconosciuto e affidabile. Il secondo è che, secondo sillogismo, se la sponsorizzazione sportiva ha resistito al passare del tempo ma il mondo è cambiato, allora per forza dovrà essere cambiato il modo di fare sponsorizzazione.

Le 4 ere della sponsorizzazione sportiva

Per sgombrare immediatamente il campo da indugi è necessario chiarire che tutte le aziende, da Gunston fino ai giorni nostri, sponsorizzano per vendere di più. Semplificando ulteriormente, ogni impresa di profitto, di qualsiasi genere al mondo, ha come scopo ultimo quello di impattare la bottom line e vendere più prodotto di quello che ha venduto ieri o venderlo ad un prezzo più caro.  

Il concetto di vendita è però, a dispetto della comprensione piuttosto universale dell’idea di base, assai sfaccettato e in costante e frenetica evoluzione. Le imprese di oggi si trovano di fronte a mercati più saturi, una globalizzazione imperante, consumatori più consapevoli, condizioni di lavoro fortunatamente più regolamentate e un’arena mediatica affollatissima in cui il caro manifesto della Gunston di per sé non può più nulla. Se cambia la vendita, cambia il marketing. Se cambia il marketing, cambia anche il marketing sportivo. In sostanza, come si arriva da un pacchetto di sigarette al Web3.0? Come si passa da una livrea arancione ad un NFT?

In questa visione di lungo termine a noi piace individuare 4 momenti storici della sponsorizzazione sportiva nel motorsport. Quattro ere della sponsorship che si differenziano per modalità ma non per obiettivi e che necessariamente hanno confini molto più tratteggiati e meno netti di quanto non si possa dettagliare nelle righe che seguono. Le 4 ere che noi individuiamo sono le seguenti:

  1. L’era della Exposure
  2. L’era del Proof of Concept
  3. L’era dell’Engagement
  4. L’era della Digital Monetization

Prima di andare nel particolare, è bene fare una precisazione. Anzi, due.

La prima precisazione è che noi non siamo accademici. Questa è una nostra visione del mondo della sponsorship tratta dall’esperienza sul campo e dalle nostre conoscenze in materia. Esiste certamente qualcuno, in qualche università, che può fornire un’osservazione più rigorosa, meglio argomentata e con ampia bibliografia di supporto. Il nostro scopo non è sostituirci all’accademia, ma anzi fornire il punto di vista dell’operatore. In tal senso, qualsiasi commento, correzione, integrazione a queste pagine non solo è ben accetta, ma anche incoraggiata.

La seconda precisazione è che conoscere il passato e riflettere sul presente è, in ogni campo, un modo per tentare di comprendere il futuro e questo non è meramente un rovello teorico. I professionisti del marketing sportivo e della sponsorizzazione hanno il dovere non solo di maneggiare la disciplina, ma anche di orientarla e sopratutto presentarla a clienti e property sportive in un’ottica che porti valore domani tanto quanto oggi. 

L’era della Exposure

La prima età della sponsorizzazione sportiva e della sponsorizzazione nel motorsport coincide con un’esigenza di awareness da parte delle aziende. Citando il dizionario Garzanti, definiamo la awareness come “il grado di diffusione, a livello di conoscenza e notorietà, di un marchio, un prodotto, una campagna pubblicitaria”. 

La prima necessità di un brand, spesso, è quella di fare conoscere il proprio marchio a quante più persone possibile, nella speranza che queste possano diventare clienti o possano accrescere il proprio purchasing rate (la frequenza di acquisto). Io, cliente, non posso acquistare o cercare di acquistare un determinato prodotto se non so che il determinato prodotto esiste. 

Tuttavia, questa esigenza si trova a modificarsi nel progredire del tempo quando inizia a crescere la competizione all’interno della stessa categoria merceologica e nascono più prodotti con lo stesso fine o la stessa promessa. La domanda si trasforma da “come faccio a fare conoscere il mio prodotto” a “come faccio a fare sì che il mio cliente pensi al mio brand quando si trova davanti ad una molteplicità di prodotti equivalenti”. Entra qui in gioco il concetto di top of mind, che è -per semplificare- l’evoluzione più desiderata dell’awareness.

Ad entrambe queste questioni, le aziende delle origini rispondono con l’exposure, ovvero con una serie di azioni che mirano a mettere più in vista possibile il proprio marchio e il proprio prodotto. In questo, la sponsorizzazione sportiva si rivela uno strumento potentissimo. Lo sport, con un seguito appassionato e vastissimo, è la tela perfetta su cui affiggere il proprio logo e il proprio nome, e da dipingere con i colori del proprio marchio. 

È la grande intuizione delle sigarette Gunston e in breve di tutta l’industria del tabacco, che bloccata dalle restrizioni sulla pubblicità tradizionale, sta cercando un modo per raggiungere la massa dei consumatori. Il motorsport è, non a caso, il medium perfetto e le auto e le moto che rombano a grande velocità condotte da cavalieri sprezzanti del pericolo il tramite ideale. La velocità è maschia, coraggiosa, affascinante, ribelle proprio come il mondo a cui si rifanno sigarette e trinciati.

Nascono le grandi sponsorizzazioni nelle due e quattro ruote che ancora colorano i sogni di molti appassionati. C’è la McLaren Marlboro di Ayrton Senna, la Benetton Mild Seven di Schumacher, la Yamaha Gauloises di Valentino Rossi o la Honda Camel di Max Biaggi. Si potrebbe continuare all’infinito, passando dalla Jordan Benson and Hedges fino alla coraggiosa BAR bicolore di un giovane Jacques Villeneuve che addirittura tentò di far coesistere i due marchi di Lucky Strike e 555 della British American Tobaccos: fino ai primi anni del duemila, questo era il trend dominante.

Grandi marchi e grandi campiture di colore che avevano un solo scopo: finire sotto gli occhi di più persone possibile senza che questi potessero non accorgersene.

L’era del Proof of Concept

Mentre le aziende del tabacco e del largo consumo iniziano a gestire e comprendere le straordinarie potenzialità di Formula 1, MotoGP (all’epoca ancora chiamata 500cc) e altre competizioni a motore, una piccola ma crescente parte di industrie altamente specializzate aggiungono un altro tassello al puzzle. 

Oli, carburanti, produttore di sospensioni e di carburatori intuiscono che fare vedere il proprio marchio è importante, ma legarlo al concetto di performance è ancora meglio. D’altronde, se qualcosa è abbastanza buono per una motocicletta o automobile da competizione, allora sarà eccellente per i veicoli d’uso quotidiano. Arriva l’epoca della sponsorizzazione proof of concept, ovvero della garanzia di bontà di un prodotto o servizio, che necessariamente darà il via alle sponsorizzazioni tecniche e al concetto di fornitore o “supplier”.

Dalla metà degli anni settanta in avanti i marchi di Goodyear, Agip, Magneti Marelli, Champion iniziano a comparire con frequenza crescente sulle livree dei mezzi da competizione promuovendo per la prima volta il lato tecnologico del sistema valoriale delle corse. Perchè certo, le corse erano virili, affascinanti e sinonimo di coraggio, ma erano anche -e l’idea stava iniziando a prendere piede- un concentrato di tecnologia e di meccanica d’avanguardia. Essere parte di quel mondo significava potere promuovere il proprio prodotto come qualcosa di eccellente, che veniva trasferito dalla pista alla strada di tutti i giorni.

La sponsorizzazione tecnica, così come l’era della sponsorizzazione proof of concept non è mai terminata: l’idea di fondo è talmente valida che ancora oggi grandi marchi come Pirelli, Petronas e altri colossi dell’industria mondiale vi puntano con entusiasmo e grande energia. Tale e tanta è la forza di questo connubio, fra sponsor tecnico e racing, che spesso questi marchi travalicano i confini dei circuiti e diventano essi stessi simbolo di performance. Oltreoceano inizia a svilupparsi il fenomeno degli sponsorship sticker, set di adesivi con i principali marchi degli OEM o spare parts che i giovani attaccano sulle loro normalissime macchine per dargli un’aria più “corsaiola”.

La sponsorizzazione ha sfondato la prima barriera: da strumento pubblicitario è diventata tramite aspirazionale. Questo aprirà una nuova porta sul mondo del marketing sportivo.

L’era dell’engagement 

All’inizio degli anni duemila il mondo che si presenta ai pubblicitari e agli uomini di marketing di tutto il mondo è radicalmente cambiato. Gli scaffali sono invasi di prodotti equivalenti, radio e televisione trasmettono pubblicità a ripetizione e i consumatori sono davanti ad un surplus di beni e messaggi informativi mai visti prima. All’orizzonte si staglia lenta la sagoma di un nuovo strumento di comunicazione, la rete internet, che da qui a poco sconvolgerà il modo di fare e vedere le cose.

La sponsorizzazione sportiva e nel motorsport si trova di fronte ad un bivio di difficile risoluzione. Da un lato, la awareness generata da televisioni e media è una moneta dalle due facce, legata a doppio filo agli ascolti televisivi che iniziano a soffrire dell’arrivo di pay per view e pluralità di offerta. Dall’altro, la sponsorizzazione tecnica è limitata a quelle industrie che sono strettamente connesse al mondo dell’automotive. Il tabacco ha giustamente conosciuto la sua fine nel mondo delle corse: le autorità, prima in Europa e poi in tutto il mondo, hanno bloccato la promozione di sigarette e trinciati ponendo il veto a qualsiasi forma di sponsorizzazione. 

La risposta, come sempre avviene, arriverà in maniera più organica di quanto si potesse sospettare. Nuovi brand si stanno affacciando all’orizzonte del largo consumo, e sono destinati a cambiare le regole del gioco. Sono marchi dedicati ad un pubblico giovane, notturno, che legge poche riviste e passa poco tempo davanti alla televisione. È un pubblico che si informa unicamente su modelli intra-generazionali piuttosto che infra-generazionali e che pratica scelte experience-centered piuttosto che possession-centered. Un pubblico che deve provare anziché vedere, che deve esperire anziché sentirsi raccontare. È il pubblico perfetto per gli energy drink.

Red Bull, Monster Energy, Rockstar sono il convoglio apripista di una terza era della sponsorizzazione, quella dell’engagement, cui rapidamente si allineeranno altre industrie. 

L’età dell’engagement non vuole solo far vedere un marchio o dire quanto buono è un prodotto, ma ha l’obiettivo di trasmettere come un brand può farti sentire. Se il verbo fondante l’età dell’awareness era see, e learn quello dell’età del proof of concept, l’età dell’engagement punta sul feel. Il patto fra gentiluomini, mai sottoscritto ma sottinteso è “io ti farò sentire figo, ricco di energia, accolto in una community e tu mi comprerai”. È l’età d’oro delle grandissime attivazioni della sponsorizzazione: eventi, concerti, feste a tema, grandi contest di abilità, merchandising di straordinaria fattura, video con stuntmen e ragazze sovente poco vestite che diventano presto virali ma lontani dalla comunicazione tradizionale. 

La sponsorizzazione diventa uno strumento per coinvolgere, un punto di partenza attraverso cui provare nuove esperienze, una mano tesa verso nuove forme esperienziali che solletichino il cambio di comportamento del consumatore. C’è molta psicologia dietro tutto questo: i marchi puntano sulle emozioni e sull’appartenenza, associano l’acquisto alla sensazione. 

I più abili, di nuovo in questo caso gli energy drink, tornano a puntare addirittura su modelli di grassroot sponsorship, andando a finanziare dal basso giovani e giovanissimi atleti ancora non famosi, accompagnandoli nel loro percorso verso il successo e selezionando con cura gli sport più adrenalinici e “cool”. Il marchio si slega definitivamente dal prodotto diventando esperienza, comunità, emozione pura: nelle notti illuminate dai led colorati, mentre auto e moto compiono evoluzioni da capogiro e i DJ suonano musica a tutto volume, migliaia di giovani ballano attorno ad un logo con due tori rossi pronti a scontrarsi in un cerchio giallo. Il miracolo è finalmente avvenuto: il motorsport si è sublimato nella sua essenza più pura e l’energia che ne è il distillato serve a unire aziende e consumatori.

L’età della digital monetization

A cavallo del secondo decennio del duemila, le nuove tecnologie hanno imposto nuovi modi di relazionarsi, nuovi modi di fare acquisti e nuovi modi di fare impresa e creare valore. I social media, già praticamente desueti al punto che i grandi nomi stanno abbandonando le scene, hanno tracciato la strada per una grande granularità del consumo, dell’esperienza, dell’opinione, della formazione. Lo stesso Thomas Merton, che nel 1955 scriveva che “nessun uomo è un’isola” rimarrebbe sorpreso dal constatare quanto uno-a-uno sia diventata l’intera macchina comunicativa e quanto il concetto di community, tanto propagandato solo dieci anni prima, si stia sbriciolando in un individualismo che è prima di tutto forma mentis. 

L’ondata pandemica che investe il pianeta da fine 2019, costringendo a lunghi lockdown e isolamenti cambierà radicalmente le abitudini di molti. Computer, cellulari e schermi televisivi diventano la più importante o spesso l’unica finestra sul mondo ed internet diviene lo strumento con cui interagire. Il Web3.0 cambia le prospettive su quello che fino a ieri era dato per scontato: le criptovalute annullano il rapporto con le banche e le monete tradizionali, gli NFT modificano il concetto di proprietà, le blockchain ridisegnano l’idea stessa di scambio. 

A cosa serve, in questo scenario ridefinito, la sponsorizzazione nel motorsport? La risposta è tanto semplice quanto affascinante: a parlare con un nuovo pubblico di consumatori che sta con sempre crescente forza abbracciando il concetto di un’economia digitale e progettata attorno all’individuo. È l’età della “digital monetization” e a dominarla sono criptovalute, NFT e sistemi di pagamento decentralizzato. 

Auto di Formula 1 e motociclette di MotoGP diventano il luogo dove formulare una proposta di business moderna: investi con me e su di me, insieme diventeremo entrambi più ricchi e lo faremo a modo nostro. Perchè però i grandi nomi, Crypto.com, Velas, Tezos, Lunar e Binance fra gli altri scelgono proprio il meglio del motorsport per questa incontro? La risposta, ancora una volta, sta nella demografica della viewership, giovanissima, iperconnessa, assolutamente globale e affascinata dalle tecnologie che permeano il meglio delle due e delle quattro ruote. 

È un modo completamente nuovo di fare sponsorizzazione e queste aziende, guidate da giovanissimi poco coinvolti dal cerimoniale del business tradizionale, non sono interessate dalle attivazioni degli inizi del secolo e men che meno dalla semplice visibilità. MotoGP, Formula 1 e Formula E diventano un gateway per irrobustire le spalle di una nuova economia crescente. Anche le property devono adattarsi a nuovi strumenti e modalità: questi giovani protagonisti della scena hanno bisogno di poche hospitality ma di grande supporto per generare NFT, vogliono poche newsletter ma richiedono fan token. È il nuovo mondo, e chi non ha paura di gettarvisi a capofitto vedrà arrivare sul tavolo accordi faraonici.

Il presente e il futuro della sponsorizzazione nel motorsport

Come detto in apertura, queste quattro segmentazioni della sponsorship nel motorsport non sono categoriche, definitive e meno che meno così regolarmente segmentate. Di più, noi crediamo, esse debbono essere intese come modelli liquidi, che si permeano vicendevolmente più che sostituirsi. 

In sostanza: l’esposizione e la awareness, oggi come 70 anni fa, rimangono componenti importanti di un buon piano di sponsorizzazione. Oggi come allora qualsiasi cliente vorrebbe che il suo marchio su questa moto o quella macchina fosse un po’ più grande di come la proposta di sponsorizzazione l’ha presentato. Engagement e equivalenza del sistema valoriale sono centrali oggi come allora. Ma da soli non sono più sufficienti.

È altresì evidente dunque che queste ere non stanno cancellando le precedenti, ma si stanno ordinatamente disponendo l’una sull’altra per dare vita ad un oggetto di complessità -ma anche di potenzialità- crescenti. Se la sponsorizzazione del buon John Love era un’idea geniale ma anche estremamente semplice (lo sono d’altronde tutte le idee geniali), la sponsorizzazione nel motorsport oggi è uno strumento a più livelli e più facce, che va manipolato con entusiasmo ma consapevolezza. Andare oggi da un’azienda di pagamenti decentralizzati ad offrire un adesivo su un alettone significa fare un disservizio all’industria, alla disciplina e allo sport stesso.

Comprendere le traiettorie del mercato e del mondo in cui ci muoviamo è il nostro compito, se vogliamo dare risposte efficienti alle aziende che ci chiedono, oggi, come costruire il loro successo di domani.

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Emanuele Venturoli
Emanuele Venturoli
Laureato in Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica all'Università di Bologna, è da sempre appassionato di marketing, design e sport.
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