Stiamo vivendo anni interessanti. Soprattutto, stiamo vivendo anni significativamente mutevoli e ricchi di continui spostamenti di equilibrio. In questo perenne ricentramento dei pesi, alla continua e perpetua ricerca di una regolarità oggi francamente difficile da definire, anche il mondo dello sport ha fatto dell’emergenza una nuova quotidianità ed ha dovuto ridefinirsi, prima ancora di potere riscoprirsi. Come vuole la rèclame, è oggi necessario domandarsi, nell’universo sportivo come in tutti gli altri, se la ricerca della normalità non sia essa stessa la normalità e se proprio nel continuo cesellamento di regole e smussamento di angoli non stia il segreto del successo. Adattarsi per sopravvivere, secondo il darwinismo, o -meglio ancora- adattarsi per prosperare.
Chi scrive queste righe soffre verosimilmente, ed è piuttosto evidente, di un bias prospettico piuttosto marcato. Dalla vittoria degli europei da parte degli azzurri fino al più straordinario campionato di Formula 1 che memoria ricordi, da un’incredibile epopea olimpica ad una strepitosa annata di MotoGP, il 2021 che ci ha appena lasciati è stato -sportivamente- uno degli anni più memorabili di sempre. La lezione che stadi, piste e palazzetti ci hanno lasciato in eredità è, in estrema sintesi, abbastanza semplice: le transizioni -anche le più dolorose- possono essere positive, purchè governate con lungimiranza. Lo sport deve continuare a cambiare se vuole continuare ad essere uno degli entertainer par excellance in un mondo che cambia con rapidità sempre maggiore.
È qualcosa di tanto intuitivo quanto controcorrente. Nè lo sport in generale nè la galassia che gli ruota attorno -a partire dalla sponsorizzazione per arrivare ai diritti televisivi o al ticketing- amano particolarmente le rivoluzioni: il cambiamento è faticoso, ricco di imprevisti, decisamente costoso sia dal punto di vista neurale che da quello del portafogli. Pur tuttavia, quando è imposto, il cambiamento accende la miccia di una serie di meccanismi che, sebbene talvolta dolorosi in principio, generano risultati largamente positivi.

Gli anni del COVID e gli anni della lotta al COVID
Si badi bene: la pandemia non è, ovviamente, l’unica variabile dell’equazione. Il virus ha avuto il ruolo principale sulla ribalta mondiale -a causa della straordinaria ed intramontabile popolarità delle sfighe nostre e altrui su giornali e rotocalchi- ma c’è altro al mondo oltre al COVID e le transizioni di cui sopra vanno intese come principio generale e non particolare. Proprio come il recentissimo “Don’t Look Up” con Leonardo di Caprio non parla davvero di una cometa che sta per abbattersi sul nostro pianeta, così il Covid è al contempo il problema e il prototipo del problema stesso.
Lo sport ed il marketing sportivo sanno bene che il virus non ha terminato la sua gara e tornerà a ripresentarsi con cadenza ciclica fra le posizioni che contano dell’agenda globale. Se, in sostanza, gli anni del COVID sono finiti, gli anni della lotta al COVID sono decisamente lungi da una definitiva scomparsa. Protocolli di health and safety, bolle contenitive, oltre ovviamente all’arrivo dei vaccini e ad una cospicua macchina organizzativa e di controllo hanno fatto sì che il Coronavirus sia oggi leggermente più vicino ad un infortunio che ad una calamità transnazionale: giocatori, piloti, meccanici, allenatori e membri dello staff escono ed entrano oggi con regolarità quotidiana dalle quarantene imposte dal virus, ma lo spettacolo ha imparato ad andare avanti.
Dal punto di vista dello sports marketing, di contro, la pandemia ha avuto il pregio -ci si consenta l’espressione- di ricalibrare il nord di un tema che stava sfuggendo ai professionisti del settore: il contenuto è assai più importante del contenitore. Per anni infatti, anche probabilmente a causa di un facile entusiasmo causato da social network e modalità di engagement rivoluzionarie, si era un po’ smarrita la via maestra che imponeva di mettere al centro della disciplina del marketing sportivo la performance sportiva in sè, ovvero l’accadimento sportivo, la partita, la corsa, la gara. La cancellazione delle gare stesse, la modifica dei calendari e l’improvvisa scomparsa di alcuni eventi hanno contribuito ad un importante triage delle priorità, che hanno al vertice assoluto lo svolgimento dello sport stesso.
La stessa sponsorizzazione sportiva, in un giochino di esopea natura di cui anche il sottoscritto è complice, ha eccessivamente esasperato negli ultimi tempi la non centralità del risultato a favore di una visione olistica che vede il ritorno dell’operazione nel semplice fatto di essere lì in quel momento e di potere attivare facendo leva su questo tema. Questo è vero a patto che non si giunga a dire che sponsorizzare il Liverpool è uguale a sponsorizzare il Norwich, o che essere partner di Red Bull Racing è uguale ad essere partner del team Haas.
Segnatamente, il 2022 non sarà diverso dal 2021, per ciò che riguarda la pandemia. La recrudescenza invernale e la diabolica Omicron impongono cautela, e comandano ancora il tempo delle danze, ma gli organizzatori hanno imparato la partitura e sono pronti ad andare a ritmo con la musica. Ci sarà -questo è certo- ancora qualche stadio vuoto e qualche tribuna sguarnita, ma nell’anno del sibillino mondiale di calcio in Qatar è facile ipotizzare che si sacrificherà -correttamente- qualche biglietto di gradinata in favore di un proseguimento delle faccende sul campo.
Le nuove geografie fisiche, politiche e merceologiche
Il Mondiale in Qatar è ovviamente un tema del 2022, così come le Olimpiadi invernali di Pechino, capitale di quella Cina che due anni fa diede il via all’inizio della fine. La penisola araba non è solamente il più piccolo stato in cui si sia mai giocata la massima manifestazione sportiva del pianeta, ma anche il definitivo e più tangibile segno di un movimento verso est del motore del sistema sport. Con questo non si intende dire che l’Europa abbia perso la sua rilevanza all’interno dello scacchiere, ma che mercati e committenti appartenenti al nuovo ordine abbiano ufficialmente concretizzato la loro presenza attorno a tutti i tavoli che contano.
Ne sono un chiarissimo segnale anche i calendari delle massime competizioni internazionali del motorsport, che contano, fra MotoGP e Formula 1, ben 20 gare lontane dal vecchio continente. La ragione, come è evidente, è la disponibilità economica di certi territori che seppure privi dell’heritage europeo possiedono oggi i capitali per divenire il palcoscenico delle manifestazioni che contano.
Neppure questo movimento tellurico è scevro da polemiche, talune ben fondate e talune meno. Rientrano certamente fra la prima categoria le preoccupazioni etiche e sociali per le condizioni dei lavoratori incaricati di preparare gli stadi e le infrastrutture che ospiteranno il mondiale. Dubbi invece rimangono sul polverone sollevato ultimamente circa il presunto “biscotto” che gli sceicchi avrebbero organizzato ai danni degli azzurri, e che permetterebbe al fenomeno Ronaldo di partecipare alla kermesse al posto della squadra che pure ha vinto l’ultimo torneo continentale. È necessario separare crusca e farina e fare buona cernita dell’infinito flusso informativo che inonda quotidianamente computer, telefoni e ammennicoli vari.
Dal punto di vista del nostro mestiere, ovvero quello delle sponsorizzazioni sportive, le implicazioni più marchiane di queste nuove geografie sono evidenti da lungo tempo. I massimi sponsor delle più importanti properties mondiali provengono spesso dall’oriente, medio o profondo che esso sia. Non occorre però ingannarsi sulla ragione di queste partnership, che non sono affatto mirate “alla conquista dell’Europa”, bensì ad un posizionamento che è molto più globale e molto meno locale. Lo sport è divenuto un asset di comunicazione troppo importante a livello planetario per pensare che gruppi sauditi o cinesi si preoccupino unicamente del cliente europeo: italiani, francesi, tedeschi e spagnoli sono troppo pochi in numero e troppo fermi a livello di crescita economica per essere ancora l’oggetto del desiderio di ogni azienda del globo. Uscendo di metafora, Etihad non è sulla maglia del City per conquistare i tifosi mancuniani o britannici, ma per arrivare rapidamente a tutti coloro che si interessano anche vagamente di pallone, indipendentemente da dove si trovino.
Va da sè che a mutare -e questo sta già succedendo- sia anche il sistema di attivazioni, che sempre più va dividendosi in due macrosistemi. Vi è quello dei supersponsor, interessati quasi unicamente allo sfruttamento dei diritti di nome/immagine/fama e alla visibilità di alta fascia, e poi vi è quello degli sponsor di fascia inferiore (una brutta parola, che necessiterebbe di un degno sostituto) , cui invece faranno sempre più comodo le piccole ma intense attivazioni locali comprendenti attività di ospitalità e presenza one-to-one.

Di criptovalute e metaversi
Quella dei confini fisici non è l’unica geografia ad essere messa in discussione dalla modernità. L’avvento di criptovalute, blog sul metaverso, blockchain, NFT e altri operatori del settore finanziario/tecnologico si è imposto nel settore sportivo con una rapidità a cui non necessariamente il settore stesso era preparato. È di poche ore fa l’accordo che Scuderia Ferrari ha siglato con Velas Network, nuovo e potente player del mercato NFT e digital wallets. In pochi anni, talvolta mesi, nuovissime aziende rese ricchissime dalla popolarità di bitcoin e similia sono partite alla conquista del mondo dello sport, staccando accordi multimilionari che hanno ridefinito lo scenario: per alcuni si tratta del nuovo tabacco, o delle nuove banche, ma la differenza è invece sostanziale.
A differenza di aziende più “tradizionali” (un altro brutto termine, impreciso, che offre un’accezione negativa a qualcosa che in realtà non ha nulla di negativo), questi nuovi grandi investitori sono profondamente -ed in ogni senso- dematerializzati: non hanno una location fisica precisamente dichiarata, si rivolgono ad un target spesso sommerso e di nuovissima generazione, hanno strutture snelle che -a discapito dei budget di cui dispongono- gli consentono operazioni rapidissime e cambi di direzione improvvisi. Sono, in, buona sostanza, un animale abbastanza sconosciuto e cui si stanno ancora prendendo le misure. Queste aziende spalancano infatti il campo a nuovi tipi di partnership, basate alle volte sulla creazione di NFT o critpovalute dedicate, a volte su pure attività di brand reputation (è il caso ad esempio di Crypto.com e dell’acquisto dei naming rights dell’arena dei Los Angeles Lakers, successivo alla sponsorizzazione del Campionato F1) e brand development per riuscire ad emergere in un mercato che sta diventando rapidamente affollato.
Nonostante le perplessità anche di alcuni addetti ai lavori e le iniziali manovre di avvicinamento a questi oggetti semi-sconosciuti, la finanza digitale rappresenta già il presente, e non più il futuro, del marketing sportivo. Il domani, abbastanza recente per la verità, è chiaramente nel metaverso -il mega network di reti connesse che garantisce mondi virtuali ma esperienze ed economie assolutamente reali e che rappresenta la next big thing del digitale. Se i grandi nomi come Meta, Amazon, Apple hanno già da anni iniziato ad attrezzarsi per il metaverso, sono moltissimi quelli che hanno già costruito -e poi speculato su- l’internet del domani, come sta avvenendo ad esempio su Decentraland. Le grandi properties sportive promettono di non essere da meno e regalare ai proprio tifosi e stakeholder un nuovo mondo di opportunità 3.0 da godere nel metaverso (o nei metaversi, a seconda delle definizioni) e gestite tramite blockchain e NFT proprietari.
Il tema ora è quello della connessione dei due mondi: quello virtualissimo e altamente digitale del metaverso e quello invece reale e assai legato all’hic et nunc dello sport. In molti intravedo nel metaverso un nuovo modo per fruire di gare, incontri e partite, grazie a tecnologia di realtà virtuali, big data e stats in tempo reale, ma i dubbi circa lo stato della tecnologia ad oggi permangono soprattutto in funzione della imponente quantità di banda che alcune piattaforme richiederebbero. Il metaverso pare invece un no-brainer per il mondo dell’e-sport che, dopo una sorprendente esposizione mediatica dovuta alla prima ondata pandemica, oggi continua a vivere un momento di assoluto splendore grazie ad una base di gamer in costante allargamento. Il videogioco -questo lo si è capito da tempo- è non solo il medium del futuro, ma anche la base evolutiva a fondamento di numerose delle tecnologie che tutti utilizzeranno nei prossimi anni.
Concludendo il ragionamento sui metaversi, e mettendo nero su bianco una preoccupazione emersa in una recente chiacchierata sul tema, l’auspicio è che vi sia dell’arrosto dietro al fumo. L’impressione è che in molti parlino di questo internet del futuro ma in pochi abbiano davvero capito cosa c’è dietro e sappiano gestire l’imponente quantità di conditio sine qua non che sono necessarie per accedervi, come il possesso di un digital wallet e similia.
Return to energizer
Per terminare questa carrellata -forse un po’ disunita- sui temi del marketing sportivo del 2022 è utile fare un passo indietro e cercare di afferrarare il quadro generale. Come si diceva in apertura, la pandemia ha tolto il coperchio del vaso di Pandora e fatto evaporare numerose delle sovrastrutture che la modernità aveva messo a cappello dell’avvenimento sportivo. I mesi di assenza dell’accadimento sportivo in sè hanno rimesso l’accento sulle fondamenta del sistema sport, ovvero lo sport stesso. Se non si gioca, non si corre, non si gareggia, il resto è tutto inutile. Tutto il resto, dai social ai metaversi, dalle declinazioni geografiche alle attivazioni di nuova generazione, si poggia infatti sull’emozione e sugli stati d’animo generati dalla performance del campione, dal bel gesto tecnico, dalla gioia della vittoria, dall’emozione di un evento memorabile.
Se quello che succede in campo è dunque il fulcro di tutto -e non può non esserlo, naturalmente- allora il tema della competitività ritorna di straordinario interesse ed è la prima cosa da salvaguardare mentre guardiamo allo sport non del 2022 ma del futuro tutto. Chi si occupa di marketing dello sport* ha la necessità di trovare meccanismi per fare in modo che l’imprevedibilità, lo spettacolo, l’incertezza, il duello (sportivo, s’intende) siano sempre il fine ultimo di chi organizza campionati, serie, eventi e tornei.
È un tema assai moderno, in realtà, anche se posa su basi antiche. Sopravviverà la MotoGP all’addio di Rossi? Può esserci un mondiale senza Messi o Ronaldo? Può prosperare l’NBA se a vincere sono squadre lontane dai Big Market? Evidentemente la risposta a questa domanda è ovviamente sì, purchè si trovino sempre modi per garantire un grande spettacolo rispettivamente in pista, sul terreno erboso e sul parquet. In questo senso, come è già menzionato, è stato illuminante specialmente il campionato 2021 di Formula 1 vinto da Max Verstappen ma, sopratutto, deciso all’ultimo giro dell’ultima gara. Lo stesso sport che per anni è stato bollato come un noioso carrozzone, quest’anno ha stregato il mondo con le sue emozionanti battaglie e con lo scontro fra due grandissimi campioni.
L’anno che verrà
In conclusione, l’anno che verrà, il 2022, è in realtà già arrivato e presenta con sufficiente chiarezza le sfide, le complessità e i temi nodali per lo sport e per il marketing sportivo. Molte di queste sfide sono state elencate nelle righe precedenti, molte abbisognerebbero di ulteriori approfondimenti. La pandemia da Covid-19 e l’arrembante variante Omicron saranno ancora il titolo principale dei quotidiani, ma la centralità dei paesi del Golfo, il ruolo di Criptovalute e metaversi, e la necessità di porre al centro delle prossime competizioni la competitività rappresentano il domani del nostro mestiere e delle sfaccettature che lo caratterizzano.
La bottom line, come si usa dire ultimamente, è che lo sport e lo sports marketing non possono permettersi di non adeguarsi al cambiamento e alle tante mutazioni che la modernità presenta. Anzi, sono obbligate ad allinearsi prima e a precedere poi questi trend, queste difficoltà e queste innovazioni se vogliono mantenere il ruolo di prim’ordine che hanno nella quotidianità.
In un recentissimo articolo su Sports Illustrated, il commissario NBA Adam Silver ha dichiarato: “Sports have been a bellwether of sorts in our society.Our ability to find a way to keep operating is also significant for society, to show that there are ways, despite living in this era”**. Sono parole interessanti, che giungono dal capo di una delle più importanti leghe sportive al mondo e che segnano un altro, forse l’ultimo e definitivo argomento per gli anni che verranno. Come tutti sanno, lo sport è ben più di una semplice forma di intrattenimento o un balocco per il tempo libero: è un oggetto sociale e culturale complesso con una miriade di applicazioni ed implicazioni pratiche, concrete e vividissime.
Comprendere, governare, comunicare e gestire queste implicazioni è probabilmente la missione più importante per il prossimo anno e per quelli che verranno.
* Non ci esibiremo qui in un’altra trattazione sulla dicotomia fra marketing dello sport e marketing sportivo, ma basti ricordare semplificando che il primo si occupa di promuovere il prodotto o i prodotti sportivi, mentre il secondo di utilizzare lo sport per promuovere prodotti o servizi terzi.
** “Lo sport è stato una specie di capobranco per la nostra società. La nostra capacità di superare i problemi e continuare a funzionare è altrettanto importante per la società, per mostrare che esistono soluzioni ai problemi di questa epoca storica”