Il weekend di Formula 1 sul circuito di Austin è di importanza capitale per diverse ragioni, sia sportive che di marketing.
Dal punto di vista sportivo, la Formula 1 ha diverse ragioni per festeggiare. In primo luogo, la rivalità fra Max Verstappen e Lewis Hamilton sta regalando al circus uno dei mondiali più appassionanti ed elettrici degli ultimi decenni, grazie anche ad un midfield interessante e dai valori molto livellati. In secondo luogo, e probabilmente anche grazie allo spettacolo in pista offerto nei mesi scorsi, i dati di affluenza al Circuit of the Americas sono stati a dir poco strabilianti: ben 400,000 gli spectators at the track nel corso del fine settimana di gara.
Tuttavia, è probabilmente sul piano del marketing sportivo che la massima competizione a quattro ruote deve trovare ragioni per festeggiare. L’ambizioso piano di rilancio organizzato da Liberty Media porge ora i primi evidenti risultati sia da un punto di vista di presenza digitale che di sviluppo del marchio. Questa Formula 1 si sta evidentemente svecchiando e proiettando al futuro, togliendosi la polverosa giacca baronale del “pinnacle of motorsport” per mettersi abiti più amichevoli e trasversali.
Grafiche ammiccanti, social media sapientemente gestiti e tantissime attivazioni online e offline stanno rapidamente traghettando la principale serie a ruote scoperte verso una nuova epoca, con un pubblico giovane e una promozione che strizza l’occhio con più malizia ad una comunicazione moderna e sbarazzina, colorata e decisamente fresca. Non nuoce al paddock, evidentemente, una nuova generazione di piloti giovani e di talento (da Norris a LeClerc, da Russell allo stesso Verstappen), che non hanno difficoltà a spendersi per squadre e sponsor, pur mantenendo altissimo il livello dietro al volante.
Se, però, l’Europa è da sempre molto responsive ai temi delle quattro ruote -e la Formula 1 ha gioco facile nelle sue nazioni storiche come l’Italia, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania- lo stesso non si può dire per gli Stati Uniti.
L’America è sempre stata il grande rebus per il Circus, che ha sempre corso negli stati a stelle e strisce senza però mai fare veramente breccia nel cuore di un pubblico abituato ad impostazioni sportive e di entertainment differenti. Senza andare a scomodare football americano e baseball (sport che non a caso hanno poca fortuna nel vecchio continente), è sufficiente ricordare che lo stesso motorsport è profondamente differente negli USA, dove le corse negli Ovali e le grandi classiche come Indianapolis e Daytona dominano ancora la scena.
NBA e Formula 1: unire le piattaforme per allargare la fanbase
Proprio partendo da queste premesse occorre leggere la partnership che la NBA, la lega professionistica di pallacanestro americana, e la Formula 1 hanno stretto in occasione del Gran Premio americano.
Numerose iniziative sono state lanciate in collaborazione fra i due campionati e fortissima per tutto l’evento è stata la presenza di dettagli mutuati dal basket americano, fra cui ad esempio la consegna del trofeo del vincitore da parte di Shaquille O’Neal (in una cerimonia che, come da tradizione, ha avuto ben poco di sobrio). Fra le altre cose, interessantissima l’operazione che ha visto le 30 squadre NBA prestare il proprio look per vestire -seppure virtualmente- le vetture di nuova generazione di F1 per una bella operazione sui social media e la gara di tiro fra piloti e giocatori NBA con un premio da dividere ovviamente in beneficienza.
Al netto del lato folkloristico e di colore, queste sono tutte attività con una forte ratio di marketing sportivo e con un obiettivo ben chiaro: portare il prodotto Formula 1 all’esposizione su piattaforme altre per aumentare la notorietà del brand e sopratutto creare quell’avvicinamento mnemonico che può generare nuovo pubblico nel lungo periodo.
In termini di scuola, questo tipo di operazione cross-platform (ovvero che lavora fra piattaforme differenti -in questo caso per audience) ha due tipi di ragioni a sottendere:
- l’aumento della awareness
- l’associazione valoriale
L’obiettivo dell’attività, evidentemente, è far crescere il prodotto Formula 1 negli Stai Uniti, cercando di fare leva su una lega di grande successo.
NBA e Formula 1: aumentare l’awareness
Aumentare la awareness della F1 in America è ovviamente il più semplice, ma anche forse il più importante, obiettivo della partnership fra NBA e Formula 1. Per quanto possa sembrare folle ad un europeo -che ha passato già la fase della consapevolezza del marchio ed ha già posizionato la F1 come un brand “top of mind”- non tutto il nord America conosce la massima Formula.
Non va qui dimenticato il profilo altamente sfaccettato dell’audience americana, assai più stratificata e diversificata del pubblico europeo per background, tradizioni, cultura e abitudini di consumo. Insomma, in un paese così grande e così variegato, il primo punto dell’agenda è certamente fare passare la conoscenza del marchio e la consapevolezza dello stesso.
In questo senso l’NBA, i suoi giocatori e le sue squadre sono un canale di primissimo ordine. La pallacanestro americana condivide infatti con il baseball il secondo gradino del podio come sport più amato negli States (il primo è, senza ombra di dubbio, il football).
La National Basketball Association è un’industria da circa 9 miliardi di dollari in revenue a stagione che conta 30 squadre dislocate in 22 Stati della nazione. Le finali dello scorso anno fra Phoenix Suns e Milwaukee Bucks hanno visto viewership nazionali di circa 10 milioni di spettatori a gara, un numero interessante ma in calo se si considerano i più di 20 milioni a gara del 2017 quando sul parquet c’erano i Cavaliers di LeBron James e i Warriors di Stephen Curry.
Usare i social media della lega, delle squadre e persino dei singoli giocatori per veicolare contenuti legati al mondo della Formula 1 è il metodo più spiccio ma anche più efficace per esporre il larghissimo pubblico della pallacanestro americana alle ruote scoperte e mettere il logo F1 davanti a più occhi possibili.
Perchè dunque non usare se la popolarità è il fattore determinante, la NFL, la lega di football americana che domina la scena dello sport statunitense al posto della NBA?
La ragione qui è probabilmente duplice. Da un lato, la NBA avvia proprio in questi giorni la nuova stagione, con grande buzz mediatico attorno alla ripartenza del campionato da sfruttare come ulteriore volano. Dall’altro, c’è probabilmente la limitata popolarità del campionato NFL per il pubblico europeo e asiatico, cui verosimilmente i contenuti del football e i protagonisti interessano poco o nulla.
NBA e Formula 1: l’associazione valoriale
Come già si è letto più volte su queste pagine, nel mondo del marketing sportivo e della sponsorizzazione l’associazione valoriale ha un ruolo di prim’ordine. Avvicinare un marchio da promuovere ad una squadra di successo proietterà su quel marchio i valori, le qualità e le peculiarità di quella squadra e di quello sport. È, in poche parole, quello che da sempre ha fatto Red Bull, associando il proprio energy drink a sport adrenalinici, giovani e “estremi”, finendo così per posizionarsi come lo straordinario marchio che è oggi. Ma è anche ciò che quotidianamente fanno migliaia di brand mondiali con la sponsorship sportiva, su ogni campo, pista e arena del pianeta.
Questo tipo di ragionamento -che abbiamo semplificato per ragioni di brevità ma che trova solido fondamento scientifico negli studi di psicologia del comportamento- è lo stesso che c’è alla base di una partnership come quella in questione fra NBA e Formula 1.
È qui necessario immaginare la Formula 1 un po’ come una scatola vuota agli occhi dello spettatore americano. Il circus non ha avuto il tempo -ma soprattutto la tradizione- per costruire nella mente del pubblico USA un agglomerato di associazioni e caratteristiche sufficienti a inquadrare il prodotto così come è successo in Europa. Avvicinarlo ad uno sport che -invece- è molto radicato nella cultura statunitense è il primo modo per formare un’idea -cognitiva ma anche emotiva- di Formula 1.
L’NBA è una lega internazionale, moderna, ricchissima, culturalmente variegata e meravigliosamente inserita nel contesto socio-politico: ha, insomma, un posizionamento di prim’ordine agli occhi del pubblico americano. È inoltre una lega la cui dirigenza, prima con David Stern e ora con Adam Silver -un ruolo che gli americani chiamano commissioner– ha un progetto di lungo periodo che gestisce con integrità e professionalità. In sostanza, un’eccellenza.
Mettere dunque la NBA accanto alla Formula 1 significa arricchire quest’ultima con i valori e con le qualità della prima, riempiendo quella famigerata scatola di cui si parlava ad inizio paragrafo. È evidente che i risultati di queste operazioni non sono e non possono essere a breve termine: chi si aspetta che grazie ad una simile iniziativa la F1 abbia guadagnato migliaia di fans statunitensi non solo prende un granchio, ma manca di cogliere il segno del lungo periodo. In un’epoca in cui le scelte sull’entertainment sono numerosissime grazie anche all’evoluzione tecnologica il fan deve essere avvicinato gradualmente alla fruizione dello sport e alla sua cultura e comprensione.
In conclusione
Senza ombra di dubbio la partnership fra Formula 1 e NBA va ben contestualizzata per poter conciliare al meglio il marketing della F1 con quello del mondo basket. Se da un lato non si deve pensare che la conquista dell’America sia garantita da una gara di tiro fra piloti o un hall-of-famer che consegna la coppa a bordo di un improponibile veicolo, altresì non si deve commettere l’errore di fraintendere queste attività come un balocco fine a sé stesso.
La verità è che gli Stati Uniti sono un paese difficile da interpretare e prova ne è il sempre singolare momento d’apertura del Gran Premio, con il cantante country Joshua Ray Walker che intona l’inno nazionale mentre elicotteri da guerra sfrecciano sopra il cielo di Austin, le cheerleaders dei Dallas Cowboys sventolano i pompon, un paracadutista fa planare lo star-spangled banner dall’alto e un mandriano libera in volo l’aquila simbolo della libertà.
Pensare di entrare in un mercato del genere a gamba tesa è qualcosa di impossibile, Stefano Domenicali e gli uomini di Liberty Media lo sanno bene: chi ha tentato in passato ha fallito. Ora, mentre l’America si prepara a vedere tornare le F1 sul tracciato di Miami nel 2022, una strategia di cauto avvicinamento potrebbe essere quella più opportuna.
Per farlo, si è scelto intanto di farsi accompagnare per un pezzo di strada da una delle leghe americane di maggior successo in patria e nel mondo. Non è la mossa definitiva, certamente. Ma è pur sempre un buon primo passo.